Francesco La Licata, La Stampa 11/1/2013, 11 gennaio 2013
È riuscito a morire nel proprio letto, Nino Calderone, uno dei primi mafiosi passati dalla parte dello Stato, con una scelta coraggiosa per quei tempi, quando non c’era ancora neppure una legge che pensasse alla protezione dei collaboratori di giustizia
È riuscito a morire nel proprio letto, Nino Calderone, uno dei primi mafiosi passati dalla parte dello Stato, con una scelta coraggiosa per quei tempi, quando non c’era ancora neppure una legge che pensasse alla protezione dei collaboratori di giustizia. Calderone, che persino i poliziotti di scorta chiamavano familiarmente «zu Ninu», se nè andato nella sua casa, in Nord America, attorniato dall’affetto di figli e nipoti e, soprattutto, di Margherita, la splendida moglie, artefice della vera e propria conversione del capomafia di Catania, consegnatosi nelle mani di Giovanni Falcone quando temeva di essere ucciso in una cella del carcere di Aix-en-Provence. Si deve a lui la negazione del luogo comune che per anni ha descritto la Sicilia Orientale come immune dal contagio mafioso. «Ma quando mai, - rivelò - a Catania la mafia esiste dal 1925 e l’abbiamo pure esportata a Tunisi». Era la sera del 31 dicembre del 1986. «Zu Ninu» non ce la faceva più, pensava a Margherita, sola, a Nizza (dove si erano rifugiati per sfuggire agli ex amici di Cosa nostra), lontano da Catania, alle prese con mille problemi e con la sopravvivenza dei tre figlioletti (7 anni il piccolo, 10 e 12 le femminucce). Diede di matto e «costrinse» il direttore del carcere a chiamare il giudice Falcone. Un Capodanno migliore, il magistrato palermitano non se lo poteva immaginare. Sapeva che Calderone, con le sue rivelazione, andava a chiudere il cerchio, il grande racconto aperto da Tommaso Buscetta. La «pratica Calderone» - molto delicata perchè Cosa nostra aveva già decretato l’assassinio del boss, «colpevole» di essere fratello di Giuseppe, il capo della cupola regionale della mafia poco gradito a Riina e al suo alleato di Catania, Nitto Santapaola venne affidata al giovane Antonio Manganelli, oggi capo della Polizia. Il chiodo fisso di Calderone erano i figli e la «sua» Margherita. Così, prima di saltare il fosso volle stringere una specie di patto d’onore con Manganelli, una vera e propria mozione degli affetti. «Dottore, - gli chiese - lei è sposato»? La risposta fu negativa, perchè, dice adesso il capo della Polizia, «Allora ero proprio giovane». La replica del boss fu lapidaria: «Bene, allora faccia conto che da oggi lei ha moglie e tre figli». Così era Calderone e per questo si faceva voler bene. Anche perché, di tutti i pentiti che si affacciavano alla ribalta della cronaca, appariva quello più «sincero», mosso, cioè, da un autentico rimorso di coscienza, di rifiuto di tutto ciò che era stato. D’altra parte, lui stesso aveva confessato - anche a Giovanni Falcone - la propria inadeguatezza di boss della mafia. «Se non era per mio fratello - ammetteva - io non ci sarei mai entrato in Cosa nostra». «Io non sono capace di far male a una mosca», confessò in una delle poche interviste concesse in Italia. E raccontava il suo tormento («non ebbi pace per due giorni e una notte») per non essere riuscito a salvare la vita a quattro ragazzini, condannati a morte dalla mafia per aver scippato la madre del boss Nitto Santapaola. Era nato povero, «zu Ninu»: «Abitavamo al di là di San Cristoforo, il quartiere più misero di Catania. Era talmente brutto che non aveva nome». Fu la mafia a risollevare le sorti della sua famiglia. Fu l’appartenenza a Cosa nostra a trasformare i due fratelli in capisaldi del sistema di potere catanese. Raccontava Calderone che se volevano aprire un distributore di benzina trattavano direttamente con l’Eni. «Ma mai per telefono» precisava, «ci mettevamo in macchina e andavamo fino a Milano». Ha trascorso gli ultimi anni in pace perchè aveva «chiuso» veramente col passato. Grazie anche alla fondamentale presenza di Margherita, che era distante dalla cultura mafiosa e non tollerava schermi. Una volta, ad una «scampagnata», notò un tale che tutti chiamavano «professore». Chiese al marito chi fosse e, quando Nino balbettò qualcosa, lei lo stoppò: «Ma che dici, quello è Luciano Liggio, lo so benissimo». È stata proprio questa «freschezza» ad aver salvato «zu Ninu».