Fabrizio Caccia, Corriere della Sera 11/1/2013, 11 gennaio 2013
ROMA —
Sono tutti lì col fiato sospeso, il sindaco, l’arcivescovo, i sindacati, l’azienda, ma soprattutto gli undicimilatrecento lavoratori dell’Ilva di Taranto, 2.400 dei quali già in cassa integrazione da dicembre. Una città intera in ansia: «Taranto è preoccupata per lo stipendio dei suoi lavoratori», confessa Ippazio Stefàno, il sindaco dei Due Mari. Oggi è giorno di paga regolare, ha comunicato ieri il gruppo siderurgico, ma da febbraio chi vivrà vedrà. «E quando ti cominciano a mancare i soldi per vivere — dice Antonio Talò, sindacalista Uilm — le reazioni non si possono più prevedere. Taranto è seduta su una polveriera. La pressione è forte, la tensione altissima, centinaia di lavoratori sono già venuti da me con la busta di dicembre falcidiata dalla Cig: 800 euro. Si chiedono tutti che ne sarà di loro...».
Francamente difficile, al momento, dare risposte o azzardare una previsione. Sono tutti in attesa, con qualche tremore, della decisione che prenderà, forse già oggi, comunque nelle prossime ore, il Tribunale del riesame di Taranto sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dai pm contro la legge salva-Ilva del governo e la conseguente richiesta di dissequestro, presentata dall’azienda, di quel milione e 700 mila tonnellate di prodotti finiti o semilavorati che giacciono dal 26 novembre scorso sulle banchine del porto: valore stimato, più di un miliardo di euro. Senza quei prodotti e senza neppure la possibilità di commercializzarli al più presto, l’Ilva non esclude sviluppi drammatici: «Lo sblocco della merce è imprescindibile per continuare la vita aziendale», ha messo nero su bianco l’8 gennaio il presidente del gruppo, Bruno Ferrante. E ancora: «L’azienda ha fatto un grandissimo sforzo finanziario per procedere regolarmente al pagamento degli stipendi di gennaio. Mi auguro che la situazione possa evolvere positivamente per fare altrettanto il prossimo mese».
Il sindacalista Talò è più esplicito: «Tutto quell’acciaio invenduto fermo in banchina si sta deteriorando e molti piccoli clienti hanno già deciso di rifornirsi altrove, in Francia e in Germania, l’Ilva così sta perdendo ulteriori fette di mercato. Se non arriverà il dissequestro, perciò, la cassa integrazione potrebbe essere estesa ad altre 2 mila persone, metà stabilimento rischia di restare a casa in poco tempo. Incrociamo le dita...». Quel milione e 700 mila tonnellate d’acciaio fu bloccato a novembre dai pm della Procura tarantina in quanto considerato il «corpo del reato» del presunto disastro ambientale perpetrato dall’Ilva ai danni della città e della sua gente. Inutili i ricorsi presentati dall’azienda, tutti sonoramente bocciati anche dal gip, Patrizia Todisco. Ma poi era arrivata la legge 231 del 24 dicembre 2012, con le rigide prescrizioni della nuova Aia (Autorizzazione integrata ambientale) e la guerra in carta da bollo tra azienda e magistrati sembrava superata.
La Procura, invece, ha sollevato prima il conflitto d’attribuzione tra poteri davanti alla Corte costituzionale: il governo e il Parlamento, cioè, togliendo a dicembre i sigilli agli impianti e alla merce, attraverso il decreto tramutato in legge, avrebbero ostacolato l’esercizio dell’azione penale, interferendo con l’inchiesta. Così, il 13 febbraio prossimo è già stata fissata la camera di consiglio della Consulta per valutare l’ammissibilità di questo primo ricorso. Ma poi ecco pure la questione di legittimità costituzionale sollevata dai pm, sulla cui fondatezza dovrà pronunciarsi in queste ore non solo il Tribunale del riesame ma pure lo stesso gip, Patrizia Todisco. «La legge 231 non viola la Costituzione né tantomeno espropria la funzione della magistratura», c’è scritto in sintesi nelle 15 pagine della memoria difensiva presentata dai legali dell’azienda. «La disciplina della legge definita salva-Ilva — affermano gli avvocati — consiste proprio nella determinazione dei parametri atti a consentire l’individuazione delle prescrizioni e dei limiti entro i quali l’esercizio dell’attività produttiva può essere svolta senza pregiudizio della salute e dell’ambiente».
L’Ilva in effetti, chiamata dalla nuova Aia alla bonifica radicale degli impianti, ha già proceduto a spegnere l’Altoforno 1 e le cockerie 5 e 6 collegate. E la produzione è già diminuita sensibilmente: 17 mila 500 tonnellate di ghisa al giorno contro le 25 mila del passato. Altre misure drastiche, già previste dal cronoprogramma, verranno prese nei prossimi mesi. Tanto che il presidente del gruppo, Bruno Ferrante, l’8 gennaio aveva parlato apertamente di «un vero e proprio accanimento della Procura», che continua a tenere sotto sequestro la merce prodotta fino a novembre. In queste ore delicate che precedono i responsi del Riesame e del gip, Ferrante però si appella solo al «buonsenso» e alla «ragionevolezza», perché in gioco «c’è il destino di migliaia di famiglie» ed è giusto «tutelare insieme ambiente, salute e lavoro». Il sindaco Stefàno, dal canto suo, punzecchia il governo: «Siamo ancora in attesa che venga nominato il garante per l’attuazione dell’Aia. E non è stato designato neppure il commissario per le bonifiche annunciato ad agosto...». L’arcivescovo di Taranto, Filippo Santoro, prova a mediare: «La Chiesa ha piena fiducia nelle istituzioni e prega per il futuro della città, la salute degli ammalati e il lavoro degli operai...». Più chiaro di così.
Fabrizio Caccia