la Repubblica 11/1/2013, 11 gennaio 2013
SALVO PALAZZOLO
PALERMO
— «La trattativa fra Stato e mafia iniziata nel 1992 ebbe il suo culmine nel 1994», ricostruisce il pubblico ministero Nino Di Matteo: «Le stragi cessarono con le risposte di Dell’Utri e Berlusconi alle richieste avanzate da Cosa nostra tramite il boss Vittorio Mangano». Eccolo, l’ultimo capitolo dell’atto d’accusa della Procura di Palermo all’udienza preliminare per la trattativa. Dopo due giorni di requisitoria, il pm Di Matteo chiede che venga celebrato un processo per gli uomini dello Stato e per quelli della mafia che avrebbero dialogato fra le bombe del ‘92-’93. Undici persone in tutto. I primi della lista sono gli ex ministri Calogero Mannino e Nicola Mancino: il primo accusato di aver avviato la trattativa dei carabinieri perché temeva di essere ucciso, il secondo imputato di aver mentito ai magistrati per proteggere i carabinieri.
Nell’atto d’accusa della Procura, c’è anche il senatore Pdl Marcello Dell’Utri, accusato di essere stato l’ultimo ambasciatore di Cosa nostra quando Silvio Berlusconi divenne presidente del Consiglio, nel ‘94. La lista degli uomini dello Stato per cui la Procura chiede il rinvio a giudizio si completa con gli ex vertici del Ros dei carabinieri, i generali Mario Mori e Antonio Subranni, il colonnello Giuseppe De Donno.
Nello stesso processo, fondato sull’accusa di «attentato a un corpo
politico», i pm di Palermo vogliono i capi mafiosi: Totò Riina, lo stratega delle stragi; Antonino Cinà, il medico che avrebbe recapitato il papello con le richieste di Riina a Vito Ciancimino, l’ex sindaco in contatto con i carabinieri; Leoluca Bagarella, il capomafia che il pentito Giovanni Brusca (anche lui imputato) accusa di aver mandato Mangano a Como, per parlare con Dell’Utri. Nella lista avrebbe dovuto esserci anche l’altro capo di Cosa nostra, Bernardo Provenzano, ma nei giorni scorsi la sua posizione è stata stralciata perché è in coma. Nella richiesta di rinvio a giudizio figura invece Massimo Ciancimino, che da superteste è finito accusato di calunnia per alcune dichiarazioni sull’ex capo della polizia De Gennaro. Il figlio di Vito Ciancimino risponde anche di concorso esterno in associazione mafiosa.
Subito dopo la richiesta della Procura, il primo colpo di scena. Mannino chiede al gup Piergiorgio Morosini di essere processato subito, col rito abbreviato. E dunque, anche la sua posizione verrà trattata a parte, probabilmente già nei prossimi giorni.
Nell’aula della trattativa si fanno sentire anche gli imputati di mafia. Bagarella chiede di fare dichiarazioni al termine della requisitoria. Dice: «Non ho mai fatto richieste a un politico, né ho
avuto promesse da un politico». Parole contro il suo grande accusatore: è il pentito Brusca, che per la prima volta nel ‘96 ha messo in un verbale la parola «trattativa». È stato ancora Brusca a ribadire di recente: «Mangano, che io e Bagarella avevamo mandato da Dell’Utri, tornò soddisfatto. Ci fece sapere che nell’arco di 8 anni sarebbero stati emessi provvedimenti sui pentiti e su altre questioni che ci interessavano». Ma i legali del senatore, Giuseppe Di Peri e Pietro Federico, ribattono
in aula: «Dell’Utri è stato già stato assolto per le accuse dopo il ‘92».
Comunque andrà a finire, è già un processo senza precedenti quello che adesso chiedono i pm. «Il generale Mori non ha agito così perché colluso — dice Di Matteo — ha ubbidito a indirizzi politici ben precisi». E fra i politici sotto accusa c’è anche l’ex ministro Giovanni Conso, la cui posizione è stralciata: «Sul carcere duro ha reso dichiarazioni false», dice il pubblico ministero.
«Sono convinto che c’è un grumo
politico irrisolto nei rapporti tra lo Stato e la mafia», dice a Repubblica Tv Antonio Ingroia, che per quattro anni ha coordinato l’inchiesta sulla trattativa. «Il rapporto non è mai stato di guerra senza tregua, ma di connivenza, questa è la più terribile perché c’erano ancora i cadaveri caldi degli uomini dello Stato». Ingroia denuncia: «Credo che io e i miei ex colleghi siamo stati spiati da un’agenzia nei mesi in cui indagavamo sulla trattativa».
ATTILIO BOLZONI
PALERMO
— «La trattativa fra Stato e mafia iniziata nel 1992 ebbe il suo culmine nel 1994», ricostruisce il pubblico ministero Nino Di Matteo: «Le stragi cessarono con le risposte di Dell’Utri e Berlusconi alle richieste avanzate da Cosa nostra tramite il boss Vittorio Mangano». Eccolo, l’ultimo capitolo dell’atto d’accusa della Procura di Palermo all’udienza preliminare per la trattativa. Dopo due giorni di requisitoria, il pm Di Matteo chiede che venga celebrato un processo per gli uomini dello Stato e per quelli della mafia che avrebbero dialogato fra le bombe del ‘92-’93. Undici persone in tutto. I primi della lista sono gli ex ministri Calogero Mannino e Nicola Mancino: il primo accusato di aver avviato la trattativa dei carabinieri perché temeva di essere ucciso, il secondo imputato di aver mentito ai magistrati per proteggere i carabinieri.
Nell’atto d’accusa della Procura, c’è anche il senatore Pdl Marcello Dell’Utri, accusato di essere stato l’ultimo ambasciatore di Cosa nostra quando Silvio Berlusconi divenne presidente del Consiglio, nel ‘94. La lista degli uomini dello Stato per cui la Procura chiede il rinvio a giudizio si completa con gli ex vertici del Ros dei carabinieri, i generali Mario Mori e Antonio Subranni, il colonnello Giuseppe De Donno.
Nello stesso processo, fondato sull’accusa di «attentato a un corpo
politico», i pm di Palermo vogliono i capi mafiosi: Totò Riina, lo stratega delle stragi; Antonino Cinà, il medico che avrebbe recapitato il papello con le richieste di Riina a Vito Ciancimino, l’ex sindaco in contatto con i carabinieri; Leoluca Bagarella, il capomafia che il pentito Giovanni Brusca (anche lui imputato) accusa di aver mandato Mangano a Como, per parlare con Dell’Utri. Nella lista avrebbe dovuto esserci anche l’altro capo di Cosa nostra, Bernardo Provenzano, ma nei giorni scorsi la sua posizione è stata stralciata perché è in coma. Nella richiesta di rinvio a giudizio figura invece Massimo Ciancimino, che da superteste è finito accusato di calunnia per alcune dichiarazioni sull’ex capo della polizia De Gennaro. Il figlio di Vito Ciancimino risponde anche di concorso esterno in associazione mafiosa.
Subito dopo la richiesta della Procura, il primo colpo di scena. Mannino chiede al gup Piergiorgio Morosini di essere processato subito, col rito abbreviato. E dunque, anche la sua posizione verrà trattata a parte, probabilmente già nei prossimi giorni.
Nell’aula della trattativa si fanno sentire anche gli imputati di mafia. Bagarella chiede di fare dichiarazioni al termine della requisitoria. Dice: «Non ho mai fatto richieste a un politico, né ho
avuto promesse da un politico». Parole contro il suo grande accusatore: è il pentito Brusca, che per la prima volta nel ‘96 ha messo in un verbale la parola «trattativa». È stato ancora Brusca a ribadire di recente: «Mangano, che io e Bagarella avevamo mandato da Dell’Utri, tornò soddisfatto. Ci fece sapere che nell’arco di 8 anni sarebbero stati emessi provvedimenti sui pentiti e su altre questioni che ci interessavano». Ma i legali del senatore, Giuseppe Di Peri e Pietro Federico, ribattono
in aula: «Dell’Utri è stato già stato assolto per le accuse dopo il ‘92».
Comunque andrà a finire, è già un processo senza precedenti quello che adesso chiedono i pm. «Il generale Mori non ha agito così perché colluso — dice Di Matteo — ha ubbidito a indirizzi politici ben precisi». E fra i politici sotto accusa c’è anche l’ex ministro Giovanni Conso, la cui posizione è stralciata: «Sul carcere duro ha reso dichiarazioni false», dice il pubblico ministero.
«Sono convinto che c’è un grumo
politico irrisolto nei rapporti tra lo Stato e la mafia», dice a Repubblica Tv Antonio Ingroia, che per quattro anni ha coordinato l’inchiesta sulla trattativa. «Il rapporto non è mai stato di guerra senza tregua, ma di connivenza, questa è la più terribile perché c’erano ancora i cadaveri caldi degli uomini dello Stato». Ingroia denuncia: «Credo che io e i miei ex colleghi siamo stati spiati da un’agenzia nei mesi in cui indagavamo sulla trattativa».
S.P.
PALERMO
— Ai due cellulari di Nicola Mancino risponde ormai solo la moglie. «I telefonini li lascia sempre a casa», risponde cortese la signora: «Può provare a sentirlo tramite i suoi collaboratori, sta andando a Palermo per partecipare al processo». Ma l’ex ministro dell’Interno accusato di aver mentito ai magistrati fa sapere tramite i suoi collaboratori che sulla trattativa non intende rilasciare alcuna intervista, «almeno fino a quando il caso sarà aperto». E continua a non rispondere al telefono. Chissà, forse, anche questo è un effetto dell’inchiesta che lo vede imputato a Palermo: nei mesi più caldi dell’indagine, fra il novembre 2011 e il maggio dell’anno scorso, sono finite 9.295 telefonate di Mancino nelle intercettazioni della Dia disposte dai pubblici ministeri. Dice ancora la moglie: «Un uomo come Nicola, che ha sempre servito le istituzioni, non meritava questo trattamento
».
Mancino ha comunque rotto il silenzio qualche giorno fa, proprio al processo trattativa, con una lunga autodifesa: «Non ho mai saputo niente di un dialogo fra mafia e Stato», così ha detto al giudice Piergiorgio Morosini, sostenendo di essere vittima di un «teorema». Si è presentato in aula con un lungo testo scritto e ha tenuto a specificare sul tema del carcere duro: «Mai avuto perplessità sul 41 bis per i capimafia». Poi, ha concluso sottolineando di «non aver mai fatto pressioni sul consigliere del Quirinale Loris D’Ambrosio».
L’altro ex ministro imputato, Calogero Mannino, declina anche lui la richiesta di intervista sulla trattativa. E con tono gentile spiega: «Parlerò, certo che parlerò. Fra qualche giorno. Ma prima davanti al giudice».
Taglia corto, invece, il senatore Marcello Dell’Utri: «La meglio parola è quella che non si dice», risponde al telefono. E ribadisce:
«Oggi preferisco occuparmi di altro ». Inutile insistere.
Senatore, ha saputo della richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla Procura di Palermo? «Favole», risponde.
A differenza dei magistrati di Palermo, il presidente della commissione antimafia Pisanu non la cita se non di passaggio. Ha letto la relazione? «Non l’ho letta, non mi interessa».
Il senatore Dell’Utri non ha davvero voglia di commentare l’atto d’accusa dei pm di Palermo: «Sto facendo di meglio», sussurra. Lui ha scelto di non essere neanche in aula durante l’intervento della Procura. C’era invece Mannino al processo, con i suoi legali, Carlo Federico Grosso, Nino Caleca e Grazia Volo. Dopo aver sentito le accuse dei pm, Mannino ritiene di poter dimostrare subito la sua innocenza. «Parlerò davanti il mio giudice», ribadisce.
(s.p.)