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 2013  gennaio 10 Giovedì calendario

L’AUSTERITÀ NON VA PIÙ DI MODA

[Aveva ragione l’economista taiwanese, Richard Koo: in una fase recessiva il rigore fiscale peggiora le cose Così il Fmi fa mea culpa e il Giappone annuncia un massiccio piano di investimenti da 110 miliardi] –
A metà dello scorso aprile, quando infuriava la tempesta sull’euro e George Soros profetizzava per l’Unione Europea la stessa fine della vecchia Urss, un mite economista keynesiano di Taiwan, Richard Koo, ebbe il coraggio di andare a predicare nella fossa dei leoni, ovvero la sede centrale della Bundesbank, la buona novella della crescita, alternativa all’austerità. Koo, considerato il massimo studioso della crisi asiatica, cercò invano di convincere i teologi della banca centrale tedesca che le recessioni del nostro tempo non si curano solo con i tassi bassi, perché le politiche monetarie espansive da sole sono una cura palliativa nelle fasi in cui le imprese e gli individui tutto vogliono o possono fuorché aumentare i loro debiti.
Quanto alle riforme strutturali, quelle che accrescono la competitività e che tanto piacciono agli (ex) tecnici di casa nostra, i loro effetti si manifestano dopo molti anni.
Solo le politiche fiscali espansive, quelle che la Bundesbank aborre, possono colmare con la spesa pubblica il venire meno della domanda privata, spiegava il professor Koo, così ardito da suggerire ai soloni tedeschi che, invece di chiedere ad italiani e spagnoli di stringer di più la cinghia, avrebbero dovuto sospendere la vendita dei Bund fuori dalla Germania, in modo da costringere le banche e gli investitori privati del resto d’Europa a comprare i titoli dei loro paesi come del resto capitava (e capita) in Usa, Gran Bretagna o Giappone.

TESTE DURE
La predicazione di Koo, pur accolta con interesse e cortesia, non provocò alcuna conversione tra i chierici della Bundesbank. Né poteva essere altrimenti visto che, all’epoca, nessuno osava contestare il dogma del rigore. Né in casa Bundesbank, né dentro la Bce ove il pensiero dominante non è poi così diverso. E chi se la sentiva, nella vecchia Europa, di pensarla in maniera diversa dai predicatori dell’austerità teutonica, alla Werner Sinn, il «saggio» di Kiel che per mesi ha vomitato improperi contro Italia e Spagna dalle colonne della Bild? Di sicuro non Mario Monti, il genero ideale per i capifamiglia bavaresi.
Nove mesi dopo, però, Richard Koo si è preso la rivincita. In più modi. Ieri mattina, tanto per cominciare, il nuovo governo giapponese guidato da Shinzo Abe ha annunciato una manovra economica che si rifà, senza alcuna correzione, alle sue idee: un massiccio piano di investimenti, il corrispondente di 110 miliardi di euro (cui si aggiungeranno, per effetto domino, altri 70-80 miliardi in arrivo dai privati), da destinare alla ricostruzione post terremoto, a nuove infrastrutture antisismiche, al rilancio del nucleare ma anche alla creazione di una rete nazionale di stazioni di rifornimento per le auto elettriche. Insomma, quando i privati non spendono, è lo Stato che deve scendere in campo per non mandare il tilt l’economia.
Nove mesi, del resto, non sono passati invano. Quelle che, all’epoca, sembravano le idee di un bizzarro economista asiatico o di illustri professori Usa dal pessimo carattere, dal premio Nobel Paul Krugman all’ex segretario al Tesoro Lawrence Summers, rischiano di diventare il pensiero dominante dell’economia globale, provata dall’austeritè imposta all’euro - zona che si sta trasmettendo ai grandi Paesi esportatori, Cina in testa.

LA STERZATA DEL FMI
Clamorosa, al proposito, la virata di Olivier Blanchard, stimatissimo capo economista del Fondo Monetario Internazionale. Blanchard, assieme ad un altro studioso di vaglia, David Leigh, ha sconvolto la platea degli economisti con una confessione clamorosa: spiacenti ma, a proposito dell’impatto dell’austerità sulla salute delle economie, ci siamo sbagliati.
L’effetto dell’incremento della pressione fiscale non va calcolato con un moltiplicatore pari a 0,5 volte, bensì con uno assai più elevato (1,5 volte). In parole povere, una contrazione fiscale di 1 euro crea una depressione di 1,5 euro invece che solo 0,5. Per rifarci alle cose nostre, dieci miliardi versati nell’Imu provocano un calo dei consumi nell’ordine di 15 miliardi.
Per carità, le cose non stanno sempre così: in un periodo espansivo, quando l’economia tira, una stretta fiscale può avere effetti assai più ridotti. Ma, come insegna la scienza economica (ed il buon senso), un conto è frenare l’euforia nei momenti delle vacche grasse, altro è spremere l’ultima goccia di sangue in un corpo anemico.
Il Fondo Monetario la spiega così: i bassi moltiplicatori calcolati nel periodo pre-crisi non valgono più durante la recessione. Anzi, così come aveva ribadito Koo davanti a Weidmann e agli altri chierici della Bundesbank, in periodi come questi se ci si affida solo alla medicina dei tassi bassi senza un intervento di stimolo allo sviluppo, si rischia solo di precipitare nella “trappola della liquidità” (cioè l’attività economica sembra insensibile all’abbassamento dei tassi di interesse da parte delle banche centrali), come è già successo all’America nel ’37, nella seconda onda della Great Depression o al Giappone nel 97/98, quando Tokyo si illuse di aver superato la fase più critica.

LE TESI ESPANSIVE
L’austerità, insomma , non è per tutti la miglior medicina. Anche nella versione “espansi - va” cara ad Alberto Alesina e a Francesco Giavazzi per i quali, in epoca di alti debiti, le risorse per la ripresa devono arrivare dai quattrini risparmiati e dalle riforme che, a detta di Koo, rischiano di produrre effetti troppo ritardati. E le tesi espansive, dopo anni di austerità, cominciano a prender piede. Anzi, a produrre i primi effetti. La svolta di Blanchard, maturata nel World Economic Outlook dello scorso ottobre, ha convinto il direttore generale Christine Lagarde a battere i pugni sul tavolo chiedendo che, finalmente, la Ue affrontasse in maniera seria il problema della Grecia o del Portogallo senza imporre accordi irrealistici destinati a rivelarsi palliativi. Qualcosa è cambiato, ma non abbastanza. Il rischio, si legge nel rapporto del Fmi, è di far la fine della Gran Bretagna tra le due guerre che, a suon di tasse e di austerità, finì con il distruggere l’economia senza ridurre (anzi aumentandolo) il rapporto debito/Pil, cosa che puntualmente si sta verificando in Italia. L’esempio virtuoso è quello degli Usa, dal ’45 al ’60: grazie all’aumento del pil e a tassi artificialmente bassi, gli Usa riuscirono a dimezzare il debito. Grazie a piani industriali, investimenti e tanta tecnologia, materie per cui gli esattori delle tasse non bastano.