Roberto Perotti, Il Sole 24 Ore 10/1/2013, 10 gennaio 2013
PERCHÉ NON SI FANNO I TAGLI DI SPESA
Il 27 dicembre 2012, al programma UnoMattina, l’onorevole Berlusconi dichiarava: «Dovremo andare a rimettere ordine a tutte le spese dello Stato, che sono quasi 800mila miliardi di euro, e fa ridere pensare che dentro una somma del genere trovare 4 miliardi (per togliere l’Imu sulla prima casa, ndr) di risparmi dentro 800 miliardi ... 800mila miliardi dello Stato è un gioco da ragazzi. Mi permetto di dire che se qualcuno ha detto che non si può fare questo ritorno, è qualcuno che non capisce niente di economia e di contabilità dello Stato». Trovare 4 miliardi nelle pieghe del bilancio dello Stato sarebbe effettivamente un gioco da ragazzi, se non fosse che 800mila miliardi è di parecchie volte superiore al Pil dell’intera Via Lattea; la spesa pubblica italiana, ovviamente, è 800 miliardi. E questo fa una leggera differenza. Che fosse o no un lapsus, questo passaggio è comunque istruttivo sul problema chiave che aspetta l’Italia nei prossimi anni. Tutti vogliono ridurre le tasse, almeno sui ceti medi e bassi. Ci sono parecchi modi per farlo. Il primo è di aggiungere o togliere tre zeri quando si stila il bilancio dello Stato, a piacere. Lo vedremo applicato se l’onorevole Berlusconi diventerà ministro dell’Economia, a cui si è candidato. È un metodo certamente originale, ma è ragionevole supporre che non porterà grandi frutti. Il secondo metodo è aumentare le tasse sui ricchi. Purtroppo i conti non tornano: qualsiasi ragionevole definizione di "ricco" si adotti, e qualsiasi aumento ragionevole di aliquota si ipotizzi, il ricavato non sarà sufficiente per ridurre significativamente e in modo duraturo le tasse sui ceti medio e basso. Il terzo metodo è combattere l’evasione. Ma anche qui purtroppo i conti non tornano: la lotta all’evasione, se funziona, porta risultati tangibili solo dopo molto tempo, per via del contenzioso infinito che genera. Il quarto metodo è ridurre la spesa pubblica. Per ridurre la pressione fiscale di cinque punti percentuali del Pil in cinque anni, e assumendo una crescita reale dell’1% annuo, bisogna ridurre la spesa di circa 70 miliardi ai prezzi attuali. Alcuni tagli sono previsti dai provvedimenti del governo Monti, ma quasi certamente verranno rivisti dal prossimo governo. E il grosso, in ogni caso, rimane da fare. Sgombriamo il campo da un equivoco. Vendere immobili e partecipazioni pubbliche va fatto, ma non è una soluzione al problema delle tasse. Se lo stato vende la propria partecipazione in Enel, e usa il ricavato per ridurre il debito lordo, la spesa pubblica primaria e le tasse sui cittadini non cambiano: a minori spese per interessi corrispondono minori introiti da dividendi e tasse sui profitti Enel. Se invece usa il ricavato della dismissione per ridurre una tantum le tasse sui cittadini, qualche altra tassa dovrà aumentare permanentemente per compensare la riduzione degli introiti da dividendi e da tasse sui profitti Enel. Non vi è dunque alternativa a tagliare la spesa. Ma come, in concreto? I tagli ai costi della politica sono sacrosanti, ma nel migliore dei mondi possibili arriveremo diciamo a 5 miliardi. Per i pacifisti, esageriamo e supponiano che si dimezzi la spesa per la difesa, risparmiando 7 miliardi. Per gli oppositori (come il sottoscritto) della Tav, di altre opere inutili come Expo 2015, e dei sussidi alle imprese, esageriamo ancora e supponiamo che si riducano di un terzo le spese in conto capitale, risparmiando 15 miliardi. Rimangono circa 45 miliardi, e probabilmente molti di più, da dividere tra pensioni, altri trasferimenti alle famiglie, sanità, giustizia, scuola, università, polizia, e altre spese di funzionamento. Una possibilità sostenuta da molti è di concentrare la spesa sui più vulnerabili. Ma prendiamo la spesa per pensioni: 45 miliardi riguardano pensioni sopra i 2500 euro mensili. Anche assumendo una riduzione del 30% (una misura che scatenerebbe la rivoluzione) si otterebbero meno di 15 miliardi. L’alternativa cui ricorrono tutti sono i tagli ai consumi intermedi dello Stato e alle remunerazioni dei dipendenti. Ma non basta enunciarne la quantità, bisogna dire "come" attuarli. Per fare un solo esempio, si è parlato molto in queste ultime settimane della sanità. Ma in Gran Bretagna da quindici anni commissioni su commissioni studiano il problema di come ridurre la spesa sanitaria in un sistema pubblico, senza pregiudicare la qualità dei servizi, e non ne sono ancora venuti a capo. Quante persone in Italia hanno la competenza necessaria per fare una proposta organica e quantitativamente rilevante? Quanti partiti hanno fatto proposte concrete? Ma non è solo una questione tecnica. Insieme a molti altri, da anni sostengo che le famiglie abbienti dovrebbero contribuire maggiormente a pagare il costo dell’università dei propri figli; la spesa pubblica risparmiata (diciamo 2 miliardi su una spesa totale per l’università di circa 7 miliardi) potrebbe essere usata per prestiti d’onore agli studenti meno abbienti. Proposte simili in Gran Bretagna, Germania e innumerevoli altri Paesi hanno scatenato rivolte studentesche violentissime. Cosa succederebbe da noi, dove l’università è già in rivolta per un taglio di 300 milioni? In qualsiasi dibattito televisivo c’è sempre chi parla della "macelleria sociale" degli ultimi governi, nonostante la spesa per prestazioni sociali non sia mai diminuita. Cosa succederebbe se si tagliasse veramente la spesa per decine di miliardi? Che ci piaccia o no, il problema dei tagli alle tasse è prima di tutto, e molto semplicemente, un problema di ordine pubblico. Ma non c’è una lista o un commentatore (incluso il sottoscritto, per quel che conta) che sia in grado di proporre un programma dettagliato, credibile, e politicamente sostenibile per affrontarlo.