Giordano Bruno Guerri, il Giornale 9/1/2013, 9 gennaio 2013
QUELL’AMMIREVOLE CORAGGIO DI DIRE CHE NON SONO MORTI
Un piccolo aereo scalcagnato sperso nel cielo lontano di un mare immenso. Si sia trattato di un fulmine o di un dirottamento dei narcos, interessati più a quell’apparecchio che a un riscatto, sono pochissime le speranze di ritrovare vivi i quattro italiani a bordo. Lo scrivo, con lo strazio nel cuore, e soltanto perché sono sicuro che in questi giorni i familiari tutto faranno tranne che perdere tempo a leggere i giornali; e che comunque quel che di certo non perderanno è la speranza. «Non ci arrenderemo », ha dichiarato Angela, sorella di Vittorio Missoni, e l’ha subito dimostrato: «Mio fratello Luca è in Venezuela come parte attiva delle ricerche, è un pilota e ora è impegnato a sorvolare l’area». I Missoni, insomma, non demorderanno, e vogliamo credere che la loro condizione internazionale di potenti industriali li possa favorire. Ma il loro alleato più potente sarà la speranza. È la speranza che dà forza, verrebbe da dire vita, ai genitori di quella bambina sparita ormai 16 anni fa in Campania, Angela Celentano, tanto da aver fatto credere loro - poche settimane fa - che sia ricomparsa addirittura in Messico. E che dire dei parenti di Emanuela Orlandi? Persero una ragazzina di 15 anni, e la cercano ancora pensandola 45enne. Non ci sono parole. Tengo sempre accanto a me, da buon aspirante cinico, un’antologia di «pensieri scorretti», ovvero di aforismi scelti fra quelli più spietati, più privi di pietas umana: servono a darsi forza, come i bagni nell’acqua gelida, se non ti ammazzano. Alla voce speranza trovo: «Chi vive sperando muore digiuno», di Benjamin Franklin; e Francis Bacon: «La speranza è buona come prima colazione, ma è una pessima cena»; il più crudele di tutti, come spesso capita in queste gare, è Albert Camus: «La speranza, al contrario di quel che si crede, equivale alla rassegnazione. E vivere non è rassegnarsi». Ma non sono queste le parole che direi ai Celentano, agli Orlandi, ai Missoni e ai Foresti, familiari della coppia che stava con loro. Perché in realtà, terminati i funambolismi intellettuali, è la speranza che tiene in vita, e la storia è piena di ricomparse che hanno del miracoloso. Per anni, addirittura decenni, migliaia e migliaia di famiglie italiane hanno sperato di veder improvvisamente ricomparire sull’uscio di casa un figlio, un padre, un fratello scomparso durante la tragica ritirata di Russia, nel 1943. In mancanza di una tomba sulla quale piangere il militare ufficialmente dato per disperso, tutto veniva reso possibile dalla speranza di chi lo amava, tutto pur di non accettare che fosse morto senza sepoltura, di freddo, in mezzo a una neve più alta di lui. Che il ragazzo - erano ragazzi - fosse stato soccorso da una buona famiglia russa, curato, protetto: che stesse bene e che un giorno avrebbe deciso di tornare a casa, per far incontrare la famiglia vecchia e quella nuova. Che il ragazzo, ferito, sperduto, congelato, avesse perso la memoria e che d’improvviso lo si ritrovasse in un ospedale sovietico. Che il ragazzo fosse fuggito, avesse disertato e che per paura della fucilazione, dell’arresto, si nascondesse, avesse una nuova identità. Che il ragazzo fosse stato fatto prigioniero, deportato in qualche campo di concentramento, magari in Siberia, ma che un giorno sarebbe stato liberato. Speranze folli. Eppure si sono realizzate, tutte, più e più volte.
Questo vorrei dire ai Missoni e ai parenti di ogni essere scomparso.