Andrea Scanzi, il Fatto Quotidiano 9/1/2013, 9 gennaio 2013
IL DUCA È TORNATO A BERLINO
[Dopo 10 anni di silenzio riecco David Bowie. un album in uscita (“The next day”) il 12 marzo e un singolo pieno di riferimenti alla città dove negli anni 70 diede il meglio di sé] –
Molto più bulimico che camaleontico, David Bowie ha bruciato eteronimi. Con la voracità intellettuale di un Fernando Pessoa inglese, non meno impigliato in un libro di inquietudine. Ziggy Stardust, Duca Bianco, Nathan Adler. Vite su vite, neanche troppo immaginarie, perché una non può bastare. Non a lui.
Ieri Bowie, vero nome David Robert Jones, ha compiuto 66 anni. Lo stesso giorno di Elvis, che oggi ne avrebbe 78. Col gusto mai sopito per la trovata scenica, proprio nel giorno del compleanno ha annunciato a sorpresa un nuovo disco. Si intitolerà The Next Day e uscirà il 12 marzo - standard, deluxe, doppio vinile - a dieci anni di distanza dal precedente Reality. I tempi dilatati, dovuti anche a un intervento al cuore, servono anzitutto per rifiatare. Per guardarsi intorno. Per dedicarsi a una delle tante attività, dimenticando apparentemente le altre. Cantante, attore, compositore, polistrumentista. Il primo singolo inedito ha sonorità che ricordano il periodo berlinese (fine Settanta) e un titolo a cui finora non aveva mai voluto dare risposta. Where Are We Now?, “Dove siamo adesso?” Chiederselo, ieri, avrebbe significato fermarsi. Rinunciare alle rivoluzioni.
Come tutti i camaleonti, Bowie ha partorito così tanto - molti capolavori, qualche bruttura - da essere rimasto, in Italia come altrove, incastrato nel luogo comune. Nella conoscenza epidermica. Il look eccentrico, eternato nel film Velvet Goldmine. I classici saccheggiati in tivù (Heroes) o al cinema (Rebel Rebel, scagliata da Ivan Benassi in Radiofreccia per scuotere gli ascoltatori). Chi lo ha visto in un western di Giovanni Veronesi, chi nel 1999 quando definì “idiota” Celentano dopo una intervista surreale col Molleggiato (“Secondo te si può fare qualcosa per far cessare le guerre nel mondo?”, “Non sono la persona giusta a cui chiederlo, ho Radio Mosca nelle cuffie, non ti sento”).
CHI LO CONOSCE per il duetto con i Queen (Under Pressure), chi per il fumetto bonelliano Dampyr (un personaggio è a lui ispirato), chi perché si è risposato a Firenze. E chi per gli “occhi di due colori” (falso: dopo un cazzotto all’occhio sinistro, la sua pupilla è rimasta più dilatata. Si chiama midriasi cronica. Era il 1962). David Bowie è molto di più. Conoscerlo interamente è impossibile. Il nuovo disco è una bella notizia inattesa, il singolo (assai dolente) lascia intuire un talento pressoché intatto. Bowie, come Bruce Springsteen e Neil Young, pare confermare che gli eroi non necessariamente son giovani e belli.
Ha venduto 130 milioni di dischi, ma fino all’era di Ziggy Stardust - alter ego post-apocalittico, cantante di plastica ucciso perché non sovrastasse la parabola esistenziale dell’ortonimo Bowie - sembrava un artista a uso e consumo della critica più attenta. Space Oddity, epifania giovanile, non era bastata. Poi, dal 1972, la fama. Definitiva. Dal folk al glam rock (inventato da lui), dall’electro pop (secondo alcuni il suo apice) al krautrock. Senza mai dimenticare l’attenzione meticolosa per finzione e recitazione, attinta da Lindsay Kemp.
A inizio carriera recitava già con Ridley Scott (in uno spot), col tempo si è innamorato - pure troppo - del grande schermo. Tante amicizie decisive: Lou Reed, Iggy Pop, Rick Wakeman, Brian Eno. Un mentore su tutti, il fratellastro Terry Burns, affetto da schizofrenia e morto suicida sotto un treno (nel 1985) dopo anni smarriti in clinica psichiatrica. Fu lui a introdurlo al jazz, comunicandogli per osmosi quel vago senso di ribellione che impregna come nient’altro le anime inquiete dei geni in erba. Dietro l’ostentazione dell’apparenza (“Bowie è stato l’unico uomo con cui sono andata a letto che si truccava più di me”: così Amanda Lear), una tendenza alla scomparsa. Talora all’autocommiserazione. Uno dei suoi primi manager, Tony Visconti, si allontanò da lui (ma poi è tornato) perché non sopportava quel “meschino atteggiamento e l’assoluto disprezzo verso la propria musica”.
A 15 anni ha imparato a suonare il sassofono perché lo riteneva lo strumento simbolo della beat generation nella West Coast (per maestro ebbe Ronnie Ross, lo stesso che eseguì l’assolo nella Walk On The Wild Side di Reed).
A vent’anni, parallelamente alle meditazioni indiane dei Beatles, si è sbronzato di buddhismo con tanto di isolamento mistico con i Lama tibetani in Scozia. Mai quieto, non necessariamente continuo. David Bowie è il pioniere che schizza sullo spazio (e forse neanche torna). L’artista che tracima, che travolge, che esonda. Uno, nessuno e centomila. Più che altro centomila.