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 2013  gennaio 09 Mercoledì calendario

CRISI? SPENDIAMO PER I SOTTOMARINI [170

milioni l’anno, 2 miliardi in totale. L’ultimo stanziamento nella legge di stabilità] –
Pensioni, ospedali e scuole sì. Cacciabombardieri, sommergibili e siluri no. Chissà perché in Italia da un po’ di tempo a questa parte si può tagliare di tutto, senza esitare a mettere per strada centinaia di migliaia di esodati, per esempio, o fino al punto da indurre i direttori amministrativi degli ospedali a “suggerire” ai medici di prescrivere ai malati le cure meno care e non le più efficaci. Ma quando si arriva di fronte alle armi i governi come d’incanto smettono la faccia feroce e diventano accondiscendenti e rispettosi come indù al cospetto di vacche sacre e i quattrini gira e rigira riescono sempre a trovarli. L’ultimo caso lo ha sollevato quasi per caso lunedì sera, durante Piazzapulita su La7, l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, il quale ha ricordato che tra le spese militari pesanti dell’Italia in questo momento non ci sono solo i 900 milioni di euro per rifinanziare le missioni all’estero, a cominciare da quella in Afghanistan, o i discussi e sofisticatissimi F-35, i cacciabombardieri più costosi di tutta la storia dell’aeronautica militare. Ci sono anche due sommergibili di “ultima generazione” della classe U 212, detta anche classe Todaro. Due battelli, come dicono in gergo, che costano quasi 1 miliardo di euro, che sommato all’altro miliardo già speso per altre 2 unità già entrate in esercizio e con base a Taranto, fanno 2 miliardi. Tanto per avere un ordine di grandezza, è una somma pari a circa la metà di quanto gli italiani hanno dovuto pagare di Imu sulla prima e in moltissimi casi unica casa di proprietà. E una tranche da 168 milioni è stata inserita nella legge di stabilità, varata sotto Natale.
IL PROGRAMMA degli U 212 va avanti da quasi vent’anni e quindi tutti i governi della Seconda Repubblica, di centro-destra, centrosinistra e tecnici, ci hanno messo lo zampino, compreso quelli in cui Tremonti era ministro e non escluso l’esecutivo di Mario Monti con l’ammiraglio Giampaolo Di Paola alla Difesa , che non hanno mosso ciglio di fronte alla conferma delle ingenti spese. Il primo sommergibile battezzato Salvatore Todaro fu consegnato alla Marina militare il 29 marzo 2006, il secondo un anno dopo, mentre nel 2009 è stato dato il via alla fase 2 del piano, cioè la costruzione di altri 2 sommergibili, frutto di una collaborazione italo-tedesca.
GLI ITALIANI partecipano con gli stabilimenti Fincantieri di Muggiano alla periferia di La Spezia e i tedeschi con il consorzio Arge in cui spiccano i produttori di acciaio Thyssen Krupp, tristemente famosi per il rogo nella fabbrica di Torino in cui morirono sette operai e per il quale è stato condannato l’amministratore dello stabilimento. Il 9 dicembre 2009 nei cantieri spezzini, alla presenza di “autorità, civili, militari e religiose” è stata celebrata la cerimonia del “taglio della prima lamiera” del battello che porterà la matricola S 528. Secondo informazioni della Difesa, fino a 6 mesi fa era stato costruito meno della metà di quel primo sommergibile (il 43 per cento, per l’esattezza), mentre non era stata avviata l’impostazione e tagliata mezza lamiera del secondo il cui termine ultimo di consegna, compreso un anno di prove in mare, è fissato addirittura per il 2017. Al ministero della Difesa sostengono che qualsiasi cambio di indirizzo in corsa sarebbe intempestivo e inopportuno perché i contratti sono siglati. Volendo, però, e ammesso che da qualche parte qualcuno abbia la volontà politica di farlo, si potrebbe anche fermare in extremis la costruzione dell’ultimo sottomarino della serie, con un risparmio di circa mezzo miliardo di euro, in considerazione del fatto che da quando fu decisa la sua realizzazione a oggi di cose ne sono cambiate parecchie, e non in meglio per quanto riguarda le condizioni dei conti pubblici e degli italiani in generale a cui continuano ad essere richiesti sacrifici feroci. In altri paesi dimostrano atteggiamenti molto più “laici” nei confronti delle spese militari, non esitando a metterle in discussione, a ridurle o a tagliarle del tutto quando lo considerano opportuno e di fronte ad altre esigenze ritenute più importanti. Caso emblematico di questo approccio pragmatico è quello del governo conservatore canadese che ha deciso di porre un freno al programma dei cacciabombardieri F-35 considerando fosse necessaria una fase di ripensamento visti i costi crescenti e molto elevati dell’operazione e constatati i difetti dell’aereo emersi in fase di realizzazione e di prova.


ARMAMENTI E TAGLI MANCATI, IL GOVERNO HA INDOSSATO L’ELMETTO –
C’è un settore della spesa pubblica che va a gonfie vele e purtroppo non è la scuola, non è la sanità. In contro-tendenza con tutti gli altri comparti, quello della Difesa nel 2012 ha subito meno tagli e ha ricevuto più fondi, forte di un doppio trattamento di favore che è proseguito fino all’ultimo, con una serie di colpi di coda che fanno discutere. L’ultimo si è consumato il 28 dicembre scorso con la proroga - quasi in sordina e a governo ormai dimissionato - delle missioni internazionali. Un provvedimento di solito accompagnato da forti tensioni e polemiche ma passato stavolta sotto silenzio, nonostante si portasse in pancia un vero e proprio giallo sui numeri. A prima vista il decreto sembra infatti ridurre la spesa rispetto al passato. Il budget messo sul tavolo dal governo è stato infatti pari a 935 milioni, inferiore di mezzo miliardo rispetto a quello del 2012. Il testo pubblicato in Gazzetta, però, indica che la copertura finanziaria alle operazioni militari è relativa soltanto ai primi nove mesi dell’anno, cioè fino al 30 settembre 2013. Insomma, alla fine dei conti il risparmio potrebbe essere solo sulla carta, un taglio col trucco. Un epilogo molto simile a quello dei tagli generali alla spesa strutturata del comparto difesa, anch’essi oggetto di fortissime polemiche, sia in Parlamento che fuori. Quelli di Tremonti prima e la spending review poi, si sa, sono stati “congelati” temporaneamente in vista della riforma dell’intero comparto. Quella che il generale Di Paola ha scritto per un anno e la Camera ha votato (distrattamente) il 12 dicembre, mentre fuori da Montecitorio le associazioni per il disarmo e i radicali protestavano inascoltati. Contestavano al governo metodo e merito: gli eventuali risparmi che si otterranno da questa operazione, sbandierata come una rivoluzione epocale, non torneranno affatto alle casse dello Stato, non contribuiranno per nulla al risanamento del debito pubblico o a garantire più servizi ai cittadini. Quelle risorse, a differenza dei tagli degli altri settori, resteranno a disposizione della Difesa e saranno impiegate per finanziare l’acquisto di nuovi sistemi d’arma, compresi i contestatissimi F35 che costeranno 15 miliardi di euro. La loro riduzione, urlata a gran voce e da più parti, si è fermata a 41 esemplari. Di novanta, a quanto pare, non si poteva proprio fare a meno. Dunque anche a questo servirà la riduzione di 43 mila unità, il 25% del personale civile e militare attualmente impiegato nella difesa. Idem per i frutti, molto incerti, del fantomatico piano di vendita del 30% delle caserme che dovrebbe andare a compimento in cinque anni. Quello che si profila, stanti questi fondamentali, è un’escalation di investimenti nell’industria bellica nei prossimi 10-15 anni. Sulla cui assoluta necessità per il nostro Paese si dibatte da tempo. Qualcuno, e non è la prima volta, sta mettendo in dubbio anche le reali “performance” delle nostre industrie. Le associazioni pacifiste, ad esempio, hanno confrontato i dati sull’export dichiarati nella relazione al Parlamento e quelli contenuti nel Rapporto annuale dell’Unione Europea. E hanno scoperto una curiosa incoerenza tra i numeri: nel 2011 l’Italia avrebbe esportato armi e sistemi di difesa per 2,6 miliardi, per la Ue “appena” uno. Delle due l’una, o i dati sono ampiamente inattendibili o i ritorni degli investimenti militari non sono poi così certi, come ostentato da un governo che ha continuato a indossare l’elmetto. Materia di riflessione per la nuova legislatura. E infine ecco un altro colpo di coda, stavolta assestato dalla casta con le stellette: l’ausiliaria per generali e ammiragli in congedo, una sorta di indennità di chiamata, nel 2013 salirà del 21%, con un costo aggiuntivo per i contribuenti civili di 74 milioni di euro.