Vladimiro Polchi, la Repubblica 7/1/2013, 7 gennaio 2013
IL NUOVO BUSINESS DELLA BENEFICENZA
«Anche stamattina il giardiniere ha raccolto fiori freschi che ha lasciato in un vaso sul tavolo, abbiamo un cuoco che cucina per noi e guardie per proteggerci, autisti che ci portano ovunque e qualcuno che lava e stira al nostro posto. Non mi sembra vero di essere trattata come una principessa». Viviana non è la ricca manager di una multinazionale, è un’operatrice umanitaria di Goma, in Congo. Nelle sue parole, il volto nascosto della beneficenza.
Se fosse quotata, l’“economia del bene” peserebbe come sei aziende della stazza di Eni alla Borsa di Milano. Si calcola infatti che nel mondo l’insieme di attività che appartengono al Terzo settore (organizzazioni non governative, onlus, fondazioni, enti caritativi, enti umanitari, cooperative) valgano annualmente 400 miliardi di dollari. Sul pianeta sono operative circa 50mila organizzazioni non governative (ong), che ricevono oltre 10 miliardi di dollari annui di finanziamenti. Le più ricche? Save the Children, World Vision e Feed the Children (circa 1,2 miliardi di dollari di bilancio ciascuna). Secondo il rapporto delle Nazioni unite, il numero dei volontari è pari a 140 milioni di persone, più del doppio della popolazione italiana. Da dove arrivano i soldi? I finanziamenti possono provenire da enti pubblici o da privati, cioè dalle nostre donazioni. C’è un libro che racconta il retroscena di questo mondo (“L’industria
della carità” di Valentina Furlanetto, in uscita il 17 gennaio per Chiarelettere) denunciandone gli sprechi, senza dimenticare che grazie alla beneficenza si coprono tanto i buchi del welfare nostrano che quelli della cooperazione internazionale.
Anche in Italia, il Terzo settore è lievitato negli ultimi quarant’anni. Negli anni Sessanta le ong italiane (che rappresentano solo una piccola fetta del Terzo settore) non arrivavano a una ventina. Oggi quelle riconosciute ufficialmente sono 248, si interessano
di 3.000 progetti in 84 Paesi del mondo, occupano 5.500 persone e gestiscono 350 milioni di euro l’anno. A leggere i bilanci, le prime dieci ong italiane sono Medici senza frontiere (50 milioni di euro); ActionAid (48 milioni); Save the Children
(45 milioni); Coopi (Cooperazione internazionale, 35 milioni); Cesvi (Cooperazione e sviluppo, 33 milioni); Emergency (30 milioni); Avsi (Associazione volontari per il servizio internazionale, 28 milioni); Intersos (18 milioni); Cisp (Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli, 16 milioni); Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo, 16 milioni).
La domanda più importante è: dove finiscono i soldi dei donatori? Molto se ne va per le spese di mantenimento e promozione delle organizzazioni. Qualche esempio: su un totale di circa 7 milioni di euro, la sezione italiana di Amnesty International ne spende circa un terzo per promuovere l’associazione e mantenerla in vita. Per salvaguardare oceani, balene e foreste, nel 2011 Greenpeace Italia ha utilizzato 2 milioni 349.000 euro, meno di quanto spenda per pubblicizzarsi e cercare nuovi iscritti (cosa del resto essenziale a ogni organizzazione): 2 milioni 482.000 euro. A queste associazioni va però reso il merito di rendere pubblici i propri bilanci, cosa che accade più di rado nel no-profit tutto italiano (da noi nessuna legge obbliga le ong a pubblicarli). La necessità di maggiori controlli è stata auspicata nel luglio 2012 anche dalla Corte dei conti, che ha monitorato 84 progetti in 23 Paesi, trovando di tutto: soldi mai arrivati, progetti fermi o in ritardo da anni, rendiconti spariti. Non mancano esempi virtuosi. Tra questi, Cesvi che nel 2011 ha speso oltre 25 milioni di euro per finanziare i suoi progetti, 1 milione 300mila per la raccolta fondi, 750mila euro per il personale. Chiaro, semplice e tutto on-line.
Ci sono poi gli scandali internazionali: «Il 66 per cento di tutte le donazioni che sono state fatte nel mondo – denuncia Evel Fanfan, presidente di Aumohd, organizzazione di avvocati che dal 2002 si occupa dei diritti umani della popolazione di Haiti – non
sono state investite per la gente di Haiti, ma per il funzionamento delle ong. Alcune hanno comprato fuoristrada da 40-50.000 dollari e il 20 per cento delle donazioni è andato in stipendi del personale delle organizzazioni». C’è poi l’ossimoro dell’emergenza perenne:
nella regione del Sahel (Sahara) dal 1973 a oggi sono stati investiti in aiuti diretti e indiretti oltre 300 miliardi di dollari, eppure nel 2012 c’erano ancora 18 milioni di persone bisognose di aiuto.
Il problema? «Esiste – sostiene nel libro Silvana, cooperante impiegata per anni in varie ong – una sproporzione tra fondi dedicati all’emergenza rispetto a quelli destinati allo sviluppo, il che spinge alcune associazioni ad abbandonare quest’ultimo per l’emergenza, che “rende” molto di più. La cooperazione è nata per generare sviluppo, ma da quando sono stati chiusi i rubinetti per i progetti tantissime ong si sono buttate sull’emergenza, alcune addirittura sono nate
ex novo
per questo. L’emergenza frutta maggiormente e ha tempi di approvazione più rapidi. Passa pochissimo da quando si presenta un progetto a quando si riceve la risposta, perché se c’è un’urgenza la risposta non può arrivare dopo un anno. Invece da quando un progetto di cooperazione viene presentato a quando è approvato trascorre un lungo periodo ».
Insomma, pur senza sminuire la loro utilità, stando al libro «le ong sono in competizione tra loro: per sopravvivere nel mondo della solidarietà devono fare a gara per le sovvenzioni. Parlano lo stesso linguaggio delle aziende, usano le medesime strategie». E spesso pagano gli stessi stipendi: la buonuscita di 500mila sterline versata a Irene Khan, ex segretario generale di Amnesty International, è solo la punta dell’iceberg.