Sergio Romano, Corriere della Sera 10/1/2013, 10 gennaio 2013
Giorno dopo giorno assistiamo sgomenti alla carneficina che costringe una parte del popolo siriano, multietnico e multireligioso, all’esilio sopratutto in Turchia
Giorno dopo giorno assistiamo sgomenti alla carneficina che costringe una parte del popolo siriano, multietnico e multireligioso, all’esilio sopratutto in Turchia. Come giudica lei l’atteggiamento turco che se da un lato condanna Israele per i profughi palestinesi, dall’altro ha operato e opera la stessa pulizia etnica nei confronti di altri popoli? Armenia, Grecia, Cipro e Kurdistan hanno dei contenziosi ancora da saldare e i loro cittadini aspettano una risposta positiva turca che non viene. L’argomento «pulizia etnica» è un tasto doloroso per una parte della mia famiglia originaria di Rovigno d’Istria, per una parte della mia famiglia friulana che vide villaggi ripuliti per far posto ai cosacchi nazisti, e per una parte della mia famiglia cadorina che nel 1943 vide la sua provincia inserita nell’Alpenvorlanden. Nerio Fornasier fornasier.nerio@yahoo.fr Caro Fornasier, E siste una importante differenza tra coloro che fuggono da zone di guerra e coloro che la pulizia etnica costringe a partire da regioni in cui le loro famiglie hanno lungamente vissuto. Ciò che accade in Siria appartiene, almeno per ora, alla prima categoria. Ciò che è accaduto in Europa durante la prima metà del Novecento appartiene in gran parte alla seconda. È bene non dimenticare che vi fu persino un momento, nella storia del nostro continente, in cui la pulizia etnica (chiamata allora, eufemisticamente, «semplificazione etnica») fu considerata lecita e auspicabile. In un bel saggio, apparso in inglese nella rivista Nations and nationalisms, una storica italiana dell’Università di Berna, Marina Cattaruzza, menziona l’accordo negoziato a Losanna nel 1923, sotto l’egida della Società delle nazioni, per lo scambio di popolazioni fra Grecia e Turchia dopo la proclamazione della repubblica di Kemal Atatürk e il sanguinoso conflitto fra i due Paesi. I greci che dovettero abbandonare la Turchia furono un milione e centomila; i musulmani costretti a lasciare la Grecia circa 390.000. Dietro l’accordo di Losanna vi era la convinzione, molto diffusa in quegli anni, che uno Stato avrebbe svolto al meglio le proprie funzioni e risposto alle attese dei propri cittadini se fosse stato, per quanto possibile, omogeneo. Fu questa la ragione per cui il collasso degli imperi multietnici e multireligiosi nel 1918 ebbe per effetto la creazione di alcuni Stati nazionali (Jugoslavia, Cecoslovacchia, Lituania, Lettonia, Estonia) e l’attribuzione ai vincitori di territori considerati «irredenti». Peccato che nessuno di questi Stati potesse considerarsi veramente nazionale. Nella Polonia degli anni Venti, ad esempio, vivevano grosso modo 19 milioni di polacchi, due milioni e centomila ebrei, cinque milioni di ruteni, più di un milione di tedeschi. In Romania la carta delle confessioni religiose era particolarmente varia: gli ortodossi erano più di nove milioni e mezzo, i cattolici di rito greco un milione e mezzo, i protestanti poco più di un milione e 300.000, gli ebrei 840.000, i musulmani 45.000. La Seconda guerra mondiale doveva rappresentare, secondo i vincitori, la sconfitta dei nazionalismi e l’avvento, nei territori occupati dall’Armata Rossa, dell’internazionalismo comunista. Ebbe invece l’effetto di «semplificare» etnicamente gran parte del continente. Come ricorda Marina Cattaruzza, dodici milioni di tedeschi dovettero abbandonare la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Jugoslavia e la Polonia. Altrove i movimenti di popolazioni furono provocati soprattutto dal cambiamento delle frontiere. Vennero cacciati o tornarono nella vecchia patria d’origine gli ungheresi della Slovacchia, gli ucraini della Polonia, i polacchi dell’Ucraina, gli italiani dell’Istria. In un’altra occasione, se i lettori lo vorranno, racconterò le vicissitudini di una piccola comunità italiana nell’Unione Sovietica durante la Seconda guerra mondiale.