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 2013  gennaio 10 Giovedì calendario

Nel 2008, quando l’allora premier Berlusconi li convocò per salvare Alitalia, furono definiti «patrioti»: la cordata di imprenditori guidata da Roberto Colaninno doveva impedire ad Air France di mettere le mani sulla compagnia

Nel 2008, quando l’allora premier Berlusconi li convocò per salvare Alitalia, furono definiti «patrioti»: la cordata di imprenditori guidata da Roberto Colaninno doveva impedire ad Air France di mettere le mani sulla compagnia. Ma oggi, 3 miliardi e 245 milioni di perdite e tanti errori strategici dopo, i «patrioti» sono in fuga dalle azioni. Che l’impresa fosse disperata, lo sapevano tutti fin dall’inizio. Non ne erano coscienti soltanto l’amministratore delegato Rocco Sabelli, o i «patrioti» (copyright di Silvio Berlusconi) della Compagnia aerea italiana. Lo sapeva anche Giulio Tremonti, tanto da mettersi di traverso quando il Cavaliere, pur di non perdere la faccia dopo aver promesso nella vittoriosa campagna elettorale del 2008 di salvare l’Alitalia togliendola dalle grinfie dell’Air France, voleva far intervenire ancora una volta lo Stato. Gianni Letta convocò a Palazzo Chigi il capo di Sviluppo Italia Domenico Arcuri. Per implorarlo: «Siamo nelle sue mani». Lui, cortesemente, rifiutò. Ma decisivo fu il niet di Tremonti: «Davvero vogliamo rischiare due fallimenti anziché uno?» Nemmeno il superministro dell’Economia riuscì però a scongiurare un’operazione che aveva comunque un destino segnato, come la storia dimostrerà. Cioè finire ai francesi. Nessuno potè far desistere Berlusconi. Tutti, anzi, ne appoggiarono entusiasti il rigurgito di italianità. Tremonti compreso: «Amo profondamente Alitalia. Quando sono all’estero e vedo in un aeroporto il timone con la bandiera italiana mi fa sempre un certo effetto. Anche la Lega Nord di quel Roberto Maroni che due anni prima aveva sentenziato «il governo non può e non deve dare più un centesimo all’Alitalia, se non ha la forza per competere porti i libri in tribunale» era contro Air France. I leghisti temevano lo svuotamento di Malpensa, aeroporto del varesotto, il loro storico bacino elettorale. E protestavano furenti: «È un affronto al Nord!» Anche se al Nord soltanto loro sembravano esserne consapevoli. Il ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa confessò di sentirsi «come il guidatore di un’ambulanza che sta correndo per portare il malato nell’unica clinica disposta ad accettarlo». E raccontò al Corriere che aveva «caldeggiato» l’acquisto dell’Alitalia «da un consorzio di imprenditori del Nord», ma nessuno si era fatto avanti. Non che qualcuno non ci avesse fatto un pensierino. Per esempio l’attuale candidato sindaco di Roma, Alfio Marchini. O l’ex amministratore delegato di Capitalia, Matteo Arpe. Opzioni, però, ben presto sfumate. Una «cordata», per la verità, era saltata fuori ben prima di quella sponsorizzata dal Cavaliere. L’aveva organizzata misteriosamente l’ex presidente della Consulta e della Rai Antonio Baldassarre insieme a Giancarlo Elia Valori: entrambi, ha ricordato l’Ansa lo scorso 29 novembre, imputati nel processo per aggiotaggio in corso attualmente a Roma su quella vicenda. Per mettere insieme un gruppo di «patrioti» intorno a Colaninno, a Intesa e a Carlo Toto, il patron della compagnia Air One indebitatissima con quella banca, Berlusconi si affidò invece a Bruno Ermolli. Che non incontrò le stesse difficoltà di Padoa-Schioppa: il Cavaliere era di nuovo sulla cresta dell’onda. Si fecero così avanti Francesco Bellavista Caltagirone, i Riva dell’Ilva di Taranto, Marco Tronchetti Provera, concessionari pubblici autostradali quali Gavio e Atlantia, la signora Edoarda Vesel, vedova di Camillo Crociani che aveva appena venduto allo Stato per 108 milioni il ramo d’azienda per anni monopolista del controllo dei cieli... Spuntò perfino la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, allora socia di Sviluppo Italia nel turismo. Finché, cacciata dalla porta, pure Air France non rientrò dalla finestra. Alla grande, con il 25%: il singolo pacchetto azionario più consistente. Rimettere in piedi l’Alitalia era una faccenda mica da ridere. Ma la cordata di Colaninno aveva un bel vantaggio: partiva da zero. Perché nel frattempo la vecchia Alitalia con gli armadi pieni di scheletri era stata affidata al commissario Augusto Fantozzi. L’eredità lasciatagli da una compagnia che perdeva 25 mila euro l’anno per ognuno dei suoi 20 mila dipendenti era a dir poco spaventosa. Sessanta sedi all’estero, molte in Paesi che non erano più da anni nell’elenco delle destinazioni. Una flotta di cinque aerei merci con 135 piloti: in sei anni il solo settore cargo avrebbe prodotto un buco di 398 milioni. Un elenco sterminato di creditori: dai 40 milioni dovuti agli aeroporti di Roma, ai 3 milioni e mezzo di bollette telefoniche arretrate, ai 574.505 euro della Coca Cola, ai 14.605 della Yves Saint Laurent. Per arrivare ai 77.259 euro rivendicati dalla società Ince 2002 che durante la gestione di Giancarlo Cimoli aveva curato il restyling della rivista di bordo Ulisse 2000, e che era posseduta al 50% dall’attore Pino Insegno. Adesso sembra di rivedere qualche spezzone di quel vecchio film del 2008. E non è certo per le perdite, pari a 565 milioni nel triennio 2009-2011. L’amministratore delegato Andrea Ragnetti ha definito la situazione «molto difficile». Mentre il presidente dell’Associazione degli assistenti di volo ha rivelato che l’azienda ha chiesto 50 mila ore di cassa integrazione denunciando l’impiego di «aerei ed equipaggi» rumeni. E l’amministratore delegato del fondo F2i, Vito Gamberale, non risparmia questa diagnosi: «Alitalia ha un azionariato incerto nel futuro, un indebitamento al limite e ha ridotto i voli». Non è un mistero che molti degli attuali azionisti, alla scadenza del lock up che li obbliga a conservare le azioni fino al 12 gennaio, vorrebbero uscire. Qualcuno c’è già riuscito prima del termine vendendo a un altro azionista. Banca Intesa s’è fatta carico, per esempio, di quella dei fratelli Fratini. Emma Marcegaglia, invece, la sua ce l’ha ancora sul groppone. Sebbene quattro anni fa definendo «simbolica» la partecipazione che avrebbe lasciato a operazione conclusa, avesse annunciato pubblicamente: «Il mio compito si è esaurito. Esco». Tutti questi imprenditori si possono rammaricare, perché la crisi, violentissima, non li ha favoriti. Ma è proprio sicuro che non siano stati compiuti errori strategici, come puntare sul collegamento fra Milano e Roma, ingaggiando una sfida perdente con l’alta velocità ferroviaria? Allo scopo di garantirsi il monopolio su quella rotta i «patrioti» avevano ottenuto anche una incredibile deroga triennale ai limiti antitrust. Ora Ragnetti allarga le braccia: «La concorrenza con i treni diventerà quasi insostenibile». Ed è un’ammissione che non riguarda soltanto la Milano Roma, lasciando intravedere scenari preoccupanti per il mercato interno. Senza citare altri problemi, quale la difficoltà di competere con le compagnie low cost sul medio raggio... Malpensa, poi, è stata per la Lega un’autentica débacle. I leghisti non volevano i francesi per difendere il loro hub varesino, che con l’arrivo di Colaninno è deceduto all’istante. Ecco allora che quello spettro elettorale di cinque anni fa adesso presenta il conto. Pur di rimettere in pista la compagnia di bandiera Berlusconi aveva fatto ogni genere di concessioni, a cominciare da sette anni sette di cassa integrazione. Antonella Baccaro ha calcolato su questo giornale che il presunto salvataggio ci è costato 3 miliardi e 245 milioni. Cifra che non comprende quisquilie come l’aiutino pubblico alla società di manutenzioni napoletana Atitech, rilevata dall’ex presidente dell’Unione industriali Gianni Lettieri. I capannoni sono stati infatti acquistati da Sviluppo Italia con uno stanziamento di 32 milioni infilato in una delle tante leggine, e poi riaffittati al capo degli imprenditori partenopei. Successivamente candidato da Berlusconi contro Gigi De Magistris alla poltrona di sindaco di Napoli. Per non parlare del salasso dell’amministrazione straordinaria, che la vendita ai francesi nel 2008 avrebbe certamente evitato. Un paio d’anni fa il quotidiano Mf ha scritto di un costo fino a quel momento non inferiore a 36 milioni (ben oltre metà dell’introito della vendita di 46 aerei), dei quali 6 per le parcelle di Fantozzi. Il quale, la scorsa estate, ha rassegnato le dimissioni dopo che il governo aveva deciso di portare da uno a tre il numero dei commissari. Ovviamente, nessuno è in grado di sapere quanto durerà la procedura. Con ogni probabilità, il più possibile. Un esempio? La liquidazione dell’Itavia, assorbita dall’Alitalia dopo la strage di Ustica, va avanti dal 31 luglio del 1981.