a Repubblica 10/1/2013, 10 gennaio 2013
PATRIMONIALE - DOSSIER DI REPUBBLICA
MASSIMO RIVA
«Il miracolo che l’imposta patrimoniale è chiamata a compiere in Italia è davvero grande: niente meno che mutare a fondo la psicologia del contribuente». Queste parole scritte dal campione liberale Luigi Einaudi nel 1946 restano tuttora una prima e indispensabile chiave di lettura per cercare di spiegarsi il furore politico e la strumentalità demagogica che agitano oggi la campagna elettorale attorno al tema di un prelievo sulla ricchezza accumulata. Da economista acuto lo studioso, che sarebbe diventato governatore di Bankitalia e poi capo dello Stato, soggiungeva che con questa riforma fiscale si doveva porre fine della lunga era di incrementi continui delle imposte ordinarie
sul reddito.
C’era, insomma, nel disegno einaudiano una duplice razionalità. La più evidente di stampo economico: prelevando più dai patrimoni che dai redditi, lo Stato avrebbe creato le condizioni migliori per un aumento della domanda ovvero di quei consumi che restano la fonte principale di stimolo alla crescita di investimenti
e occupazione.
Non meno importante, però, era anche la matrice etica della sua proposta che sottintendeva la necessità di riaggiustare nel senso di una maggiore equità sociale il carico fiscale sui contribuenti.
Va ricordato che, da autentico politico liberale, Luigi Einaudi era ossessionato dal principio della “eguaglianza dei punti di partenza” ritenendo che compito fondamentale dello Stato dovesse essere quello di offrire piena parità di condizioni nella competizione sociale. Illuminanti al riguardo le sue pagine a favore di un’imposta sulle successioni tale da assicurare il riassorbimento dei privilegi ereditari nel volgere di poche generazioni.
A quasi settant’anni di distanza le condizioni dello Stato fiscale tendono ad avvicinarsi – soprattutto per il peso abnorme del debito pubblico – a quelle dell’immediato dopoguerra in cui maturò la provocazione einaudiana. Ma non può certo dirsi che il dibattito politico sull’imposta patrimoniale abbia fatto grandi progressi. Nel frattempo c’è stato anche qualche esperimento di prelievo sulla ricchezza accumulata e però in forma straordinaria di imposizione limitata e abborracciata sotto la pressione dell’emergenza occasionale. Lo ha fatto il governo di Giuliano Amato quando nel settembre nero del 1992 ha dovuto fare cassa in tutta
fretta mettendo le mani sui conti correnti degli italiani per scongiurare il “default” dello Stato. Ci ha riprovato ora, in condizioni d’urgenza analoghe, il governo di Mario Monti con la nuova Imu, che si prospetta come un embrione di imposta patrimoniale ma limitata alla ricchezza immobiliare e per giunta viziata dalla base d’appoggio su un impianto catastale che per le sue scandalose scorrettezze fa rimpiangere i solerti e occhiuti funzionari di Maria Teresa.
Oggi tanto il programma del centro sinistra quanto la cosiddetta Agenda Monti prevedono,
sia pur genericamente, una forma di imposizione sul patrimonio. Ma la campagna elettorale in corso, anche attraverso le esagerazioni strumentali della demagogia, offre elementi importanti per capire le vere difficoltà che si oppongono nel nostro paese a una svolta in senso patrimoniale del regime fiscale. Quando il fronte berlusconiano fa una vera e propria chiamata alle armi dei ceti più abbienti contro ogni prelievo sui risparmi delle famiglie – come con qualche eccesso di disinvoltura viene classificata dalla destra la ricchezza accumulata al riparo dal fisco – non si limita a
rendere chiaro quanto si sia ancora lontani dal miracolo di una mutazione della psicologia del contribuente vagheggiato da Einaudi. Questa posizione riflette qualcosa di più profondo e tangibile di un’ostilità soltanto psicologica all’introduzione di un’imposta patrimoniale. Essa è lo specchio di un conflitto d’interessi economici concretissimi che mette le sue radici nella sempre più distorta distribuzione delle ricchezze che si sta consolidando da anni nella società italiana. C’è, insomma, un’altra chiave di lettura dello scontro politico in materia che ingloba, aggiorna e sporca di materialità storica l’astratta purezza ideologica della visione liberale einaudiana. Le statistiche più recenti indicano che in Italia il dieci per cento della popolazione possiede oltre il 45 per cento delle fortune censibili, mentre il 50 per cento degli italiani – ovviamente le famiglie meno abbienti – si deve accontentare di controllare non più del 10 per cento delle ricchezze complessive. Cosicché il rimanente 40 per cento della popolazione – che per comodità può definirsi ceto medio – dispone del restante 45 per cento di valori patrimoniali.
Questa mappa statistica, che la crisi economica sta facendo peggiorare di giorno in giorno in termini di crescente disuguaglianza, induce a reintrodurre nel dibattito politico-economico nozioni e concetti troppo sbrigativamente accantonati.
In particolare, guardando a quella metà di italiani che possiede il dieci per cento delle fortune nazionali, torna di sicura attualità per molti di costoro il termine “proletario” che definisce la misera condizione di chi dispone come ricchezza soltanto dei propri figli. E di pari passo con il ritorno del proletariato e lo scivolamento di parte del ceto medio verso questa posizione marginale si riaffaccia un altro motore della storia invano esorcizzato negli ultimi decenni. Che è, come si direbbe in America, la lotta di classe, bellezza!
Tante sono le forme che può assumere un’imposta patrimoniale. Essa può essere reale, personale, immobiliare e/o mobiliare, permanente o straordinaria. Ma aldilà della sua migliore veste operativa, oggi in Italia deve avere come obiettivo principale una redistribuzione del carico fiscale che ponga rimedio a una distribuzione della ricchezza così socialmente iniqua da risultare nefasta – vedi il crollo dei consumi – per la crescita economica.
PERCHE’ CAMERON NON LA VUOLE
JOHN LLOYD
“La casa di un inglese è il suo castello”: questa espressione nacque in un momento non meglio precisato del XVI secolo in Inghilterra. Ciò che stava a significare è un’idea che ha caro il concetto di indipendenza e di privacy: una volta dentro casa, nessuno può entrarvi senza permesso (a eccezione delle forze dell’ordine, ma soltanto se hanno un mandato). Il castello, però, può essere tassato e così è stato in varie forme e per secoli. (Ancora oggi in molte case britanniche si possono vedere alcune finestre murate per eludere un’imposta sulle finestre che fu riscossa tra il XVIII e il XIX secolo). Oggi le autorità locali possono esigere e riscuotono una tassa sugli immobili che si trovano nel territorio da loro amministrato, e gli introiti che ne derivano costituiscono il grosso delle entrate dei vari comuni.
È ormai assodato e palese che questa tassa è molto impopolare, quanto qualsiasi altra. Ma oggi in Gran Bretagna, dopo molti anni, continua a essere un vero e proprio terreno di scontro.
Fu un effettivo terreno di battaglia alla fine degli anni Ottanta, quando il governo di Margaret Thatcher introdusse la Community Charge o “poll tax”, il testatico, in sostituzione di una tassa basata sul valore presunto di un immobile: si trattava di un’imposta a tasso fisso su tutte le persone che vivevano in una data casa. Quell’imposta fu considerata profondamente
iniqua: un’unica persona ricchissima, residente in una casa grande e di valore, si sarebbe trovata a versare la stessa cifra di ciascun povero adulto che avesse vissuto in un appartamento gremito. Difatti, il testatico divenne la scintilla che fece esplodere violente proteste, che si concentrarono per lo più in Trafalgar Square a Londra. Alla fine quella tassa fu soppressa, ma alcuni suoi elementi furono incorporati da una nuova tassa municipale.
Oggi quella stessa imposta è tornata a essere nuovamente oggetto di lotte, seppure non così violente fino a questo momento, ma combattute strenuamente all’interno della coalizione dei conservatori e dei liberaldemocratici che, insolitamente, governa la Gran Bretagna. I liberaldemocratici hanno proposto da tempo una tassa patrimoniale sulle “case di lusso”, imposta che aumenterebbe le entrate di oltre due milioni di sterline. George Osborne – il Cancelliere dello Scacchiere (ministro inglese delle Finanze) – ha invece bocciato la proposta.
Questa particolare battaglia attesta due mentalità politiche diametralmente opposte. I liberaldemocratici credono fortemente nel principio di “equità”, ritengono che le sperequazioni non dovrebbero essere troppo grandi e che i ricchi abbiano l’imperativo morale di pagare significativamente di più per il bene comune tramite l’imposizione fiscale, soprattutto di questi tempi. I conservatori invece sono meno sensibili al principio di “equità”: sostengono che un regime fiscale più gravoso per i ricchi scoraggerebbe gli individui più facoltosi dal trasferirsi nel Regno Unito, con tutto ciò che questo implica a livello di investimenti, spese e donazioni.
Quando il presidente francese François Hollande ha proposto un prelievo fiscale del 75 per cento del reddito di chi guadagna oltre un milione di euro, il premier britannico David Cameron ha convocato una conferenza stampa per invitare i francesi più agiati a trasferirsi in Gran Bretagna. Aiutato in questo da uno degli attori francesi più famosi, Gerard Depardieu, che ormai a quanto pare ha la doppia nazionalità, francese e russa. Forse, anzi quella francese non l’ha neanche più (e in ogni caso non ha ancora quella britannica).
Traduzione di Anna Bissanti
DOVE SBAGLIA LA FRANCIA
GIAMPIERO MARTINOTTI
Tassare le grandi fortune è giusto, ma non è detto che la patrimoniale sia la soluzione migliore: secondo Jean-Paul Fitoussi, l’introduzione, a livello europeo, di una sovrattassa sui redditi prodotti dal patrimonio sarebbe una scelta più efficace. Ma è difficile tassare in un solo paese: la Francia è l’unico paese dell’Ue a colpire i patrimoni fin dagli anni ‘80, ma la fuga di Gérard Depardieu e la grande voglia di andarsene di Bernard Arnault, proprietario della Lvmh, dimostrano quanto l’imposizione delle grandi fortune sia difficile in un’economia aperta. Spaventati dall’arrivo al potere della “gauche”, considerata a torto o ragione come incline alla tassazione più che ai tagli alle spese, i ricchi francesi meditano la fuga.
Professor Fitoussi, è giusto tassare i patrimoni?
«È giusto far pagare le imposte secondo le capacità contributive di ognuno, dunque far pagare di più chi è più fortunato. Il problema è sapere come procedere. In Francia, l’imposta sulla fortuna è essenzialmente un’imposta immobiliare, poiché sono esclusi dal calcolo lo strumento di lavoro, cioè l’azienda, e le opere d’arte. E con il recente aumento delle aliquote si pone la questione di sapere se la tassazione globale (redditi da lavoro e finanziari, patrimonio) non superi il 100 per cento del reddito di un contribuente. Io avrei preferito un altro sistema».
Ci dia qualche idea: cosa immagina?
«Un’imposta supplementare sui redditi del patrimonio. Penso cioè che sui redditi prodotti dal patrimonio finanziario o immobiliare si dovrebbe far gravare una sovrattassa, che rimpiazzerebbe l’imposta patrimoniale. Ma la concezione di una imposta sulla ricchezza è molto complessa nel contesto europeo di forte concorrenza fiscale: una sovrattassa sui redditi da patrimonio, attuata in un solo paese, potrebbe spingere i più ricchi a spostarsi altrove».
Per il momento, dunque, la cosa migliore è imitare la Francia?
«Se dovessi dare un consiglio all’Italia, direi di introdurre un’imposta sul patrimonio, anche se non è perfetta, ma a tassi molto moderati. E assicurandosi che il tasso globale d’imposizione non superi un certo livello, diciamo l’80 per cento dei redditi complessivi. Quando si elabora un’imposta sulla fortuna il diavolo sta nei dettagli, bisogna fare attenzione a tutti gli effetti perversi».
La patrimoniale può diventare una bandiera per il centro- sinistra?
«Certo, tanto più che il patrimonio è ripartito in Italia in maniera molto ineguale. Tassare il patrimonio è un elemento di giustizia fiscale e sociale. E poiché si sa che la proprietà non ha necessariamente origini molto pulite, e questo vale per il mondo intero, l’idea è ancor più legittima».
Eppure due leader europei di sinistra, Schroeder in Germania e Zapatero in Spagna, hanno soppresso la patrimoniale, che ormai esiste solo in Francia: non è diventata un’imposta d’altri tempi ?
«Schroeder e Zapatero l’hanno soppressa, è vero, ma ciò non vuol dire che abbiano avuto ragione o che si tratti di un’imposta d’altri tempi. Il problema è un altro: quando si crea una nuova imposta, si dovrebbe fare una vera riforma del sistema fiscale, in modo che la fiscalità sia chiara per tutti. Aggiungere tasse alle tasse, nel periodo attuale, non è la strategia migliore. Introdurre un’imposta patrimoniale per ridurre l’Irpef può essere una buona cosa, mentre introdurla e aumentare anche quella sul reddito vorrebbe dire esigere un po’ troppo dai contribuenti europei».
EINAUDI
Le ragioni le quali possono consigliare una imposta patrimoniale non sono di giustizia tributaria.
Sono ragioni politiche e psicologiche. Si vuole creare un ambiente di sacrificio nelle classi proprietarie e risparmiatrici, sicché le classi non proprietarie rimangano convinte che ai tributi sui consumi da esse prevalentemente pagati si contrappongono imposte sui patrimoni pagate dai ricchi? Si crede che all’uopo giovi più una imposta straordinaria pagata una volta tanto che un aumento alla imposta annua sul reddito?... Se questi scopi un governo crede seriamente di poter raggiungere; se esso è sicuro di riuscire a rimettere poi altrimenti il bilancio in pareggio così da potere realmente consacrare tutto il provento dell’imposta patrimoniale allo scopo di ridurre il debito pubblico a cifra meno formidabile, esso è giustificato nello stabilire il tributo.