Duilio Pallottelli, L’Europeo n°12 dicembre 2012, 12 dicembre 2012
DUE GIORNALISTI (E UNA TALPA)
[Bemstein e Woodward: in tutto il mondo il loro nome è simbolo di libertà di stampa. Il nostro inviato li incontrò il giorno stesso delle dimissioni di Nixon, travolto dal Watergate, lo scandalo da loro scoperto] –
POCO PIÙ DI UN ANNO FA, nella redazione del Washington Post, Cari Bernstein e Bob Woodward, i due super-reporter che, con il caposervizio Barry Sussman, avevano fatto scoppiare lo scandalo di Watergate (Nixon e i suoi uomini furono accusati di intercettazioni illegali ai danni del Partito democratico. Nel 2005 Mark Feit, ex numero due dell’Fbi, rivelò di essere stato l’informatore segreto di Woodward, ndr), mi dicevano, a conclusione di una lunga intervista: «È difficile dire quali saranno gli sviluppi futuri di questa vicenda sia sul piano politico che su quello giudiziario. Arriveremo alla rimozione del presidente? A questa domanda non vogliamo e non possiamo rispondere. Potremmo solo aggiungere che continueremo a fare il nostro mestiere come l’abbiamo fatto fino a questo momento. Sappiamo anche bene che la storia è tutt’altro che vicina alla conclusione e che noi abbiamo ancora un sacco di lavoro da fare e molte cose da scoprire». Oggi che Nixon se n’è andato (il 9 agosto 1974 il presidente si dimise poco prima di essere destituito, ndr), dire che Cari e Bob, come centinaia di altri giornalisti americani, abbiano continuato a fare il loro lavoro con coscienza e puntiglio in tutti questi mesi suona come un’ironia. Ma proprio al Washington Posi, proprio nella redazione affollata dove Bernstein e Woodward lavorano, è inutile venire a cercare atteggiamenti trionfalistici. Dopo mesi e mesi di lotte, di inchieste a tutti i livelli, di accuse e controaccuse che hanno quasi sempre sfiorato il ridicolo e il grottesco, finalmente in una notte afosa e umida d’agosto "lui" se n’è andato e la cosa è diventata improvvisamente una realtà cruda, palpabile, che sgomenta. Il domani è incerto. L’unico che non riesce a essere dignitoso nemmeno sta- sera è Richard Nixon. Nemmeno quando piange alla televisione, nemmeno quando salutando gli impiegati della Casa Bianca parla della madre «che era una santa» e del padre «che era un droghiere, ma era un grand’uomo perché era un cittadino onesto». Nemmeno in questo momento supremo Richard Nixon riesce a essere diverso da ciò che è sempre stato: l’avvocatuccio arrivista e imbroglione di Yorba Linda, la piccola cittadina californiana dove è nato. Nessuno prende veramente sul serio quel- le lacrime che solcano il viso teso, incartapccorito dell’ormai ex presidente. C’è chi parla di grande vittoria della democrazia (io direi soprattutto grande vittoria di The Washington Post, che non è la stessa cosa), del tradizionale ottimismo americano che risolve sempre tutto e spinge irresistibilmente avanti, delle capacità eccezionali di recupero che ha questo Paese: tutto esatto. Ma la verità è che l’americano è stato costretto brutalmente, per la prima volta nella sua storia, a dubitare del sistema ritenuto infallibile. Chi pensa che tutto ciò non abbia scosso profondamente l’anima americana, chi è convinto che domani sarà semplicemente un altro giorno e che tutto continuerà come prima è un illuso che si rifiuta di guardare alla sostanza delle cose. Probabilmente si tratta ancora di uno stato d’animo latente. Ma è uno stato d’animo che condizionerà in maniera netta le azioni di tutti coloro che fra oggi e domani prendono in mano le redini della amministrazione: dal nuovo presidente Gerald Ford a Henry Kissinger, che almeno per il momento viene ancora presentato come la pedina indispensabile alla politica americana. Ci saranno pochissimi cambiamenti con Gerald Ford: questa è la previsione molto facile sulla bocca di tutti. «Questa è la seconda amministrazione che cade rovinosamente», dice lo storico Henry Graff della Columbia University. «Siamo evidentemente alla conclusione di un’era. Anche Lyndon Johnson, quando annunciò che non si sarebbe ripresentato alle elezioni del 1968, in pratica compiva un atto equivalente alla presentazione di una lettera di dimissioni. L’amministrazione Nixon è finita in modo molto più drammatico, dopo due anni di agonia televisiva, con un trauma maggiore per gli americani, malgrado gli obbiettivi raggiunti in politica estera, dall’apertura con la Cina ai recenti trattati con l’Unione Sovietica. E probabile che tra presidenza e Congresso ci sarà una specie di luna di miele che potrebbe durare anche parecchio: probabilmente fino alle prossime elezioni. Quindi il grosso punto interrogativo è per dopo il 1976, chiunque vincerà la prova (Jimmy Carter, presidente dal 20 gennaio 1977, ndr)». Mentre le rotative del Washington Post cominciano a girare e una fila di grossi camion attende col motore acceso di poter portare le prime copie del numero speciale di Nixon dimissionario nelle edicole della città, discuto con Bob Woodward e Carl Bernstein. Siamo nella caffetteria semideserta del giornale.
Che effetto vi fa a sapere che l’incubo è finito? Cosa provate stanotte voi due che avete contribuito per primi a pubblicare le notizie che hanno provocato la caduta del presidente?
BERNSTEIN: «Nixon se n’è andato perché era in trappola come un topo. Nella trappola non ce l’abbiamo messo noi due o altri giornalisti americani. Se l’è costruita da sé la trappola. Se ne sarebbe dovuto andare almeno un anno fa, invece di continuare a mentire alla gente che l’aveva eletto».
WOODWARD: «Ora la faccenda da mettere in chiaro è questa: dal punto di vista giudiziario è giusto che Richard Nixon vada a godersi in pace la sua pensione cospicua (60 mila dollari l’anno più le spese), il sole della California, e non venga invece chiamato a rispondere delle sue azioni davanti a un tribunale? C’è molta gente che pensa che le dimissioni, l’essere stato cacciato brutalmente, siano una punizione già abbastanza grave. Non sono d’accordo. Ma non riesco a dimenticare tutte le menzogne che ci hanno raccontato in questi due anni, tutte le pressioni che hanno fatto al nostro giornale perché la smettessimo. Se il direttore di una banca ruba del denaro, gli azionisti della società non si limitano a cacciarlo, lo denunciano alla polizia. Non vedo perché il presidente degli Stati Uniti dovrebbe essere trattato in maniera diversa. Ora, circa 15 dei suoi complici sono stati condannati da un tribunale degli Stati Uniti. Perché lui che era il capo dovrebbe cavarsela con le semplici dimissioni?». (Un mese dopo la sua entrata in carica, Ford concesse il "perdono presidenziale" a Nixon, ndr).
Se invece di Nixon alla presidenza ci fosse stato un Kennedy, vi sareste buttati sulla storia con lo stesso accanimento?
BERNSTEIN: «Qui noi due passiamo per tipi piuttosto spietati quando si tratta del nostro lavoro. Insomma pensiamo che il giornale conti più di ogni altra cosa. In tutta coscienza posso dire che se si fosse trattato di un Kennedy avremmo lavorato con lo stesso impegno. Tutto ciò che abbiamo scritto è stato sempre rigorosamente documentato. Molti senatori repubblicani, dello stesso partito del presidente, sono venuti a stringerci la mano. A ringraziarci per aver contribuito con il nostro lavoro a fare una certa pulizia. Ma far pulizia non era assolutamente il nostro fine: noi ci siamo limitati a raccogliere dei fatti meglio che potevamo. Io e Bob non la pensiamo nemmeno alla stessa maniera. Per esempio io sono contrario a un’azione giudiziaria contro l’ex presidente».
WOODWARD: «Molta gente ci telefona per farci i complimenti o magari per insultarci; molti nutrono un desiderio di vendetta nei confronti di Richard Nixon. Be’, su questo non sono d’accordo nemmeno io, ovviamente. Per il resto basta guardare come facciamo i nostri pezzi, come abbiamo scritto il nostro libro- (Tutti gli uomini del presidente, poi film nel 1976, ndr), un racconto freddo, senza opinioni, senza pregiudizi di sorta».
Non mi direte che a voi Nixon era simpatico.
BERNSTEIN: «E a chi era simpatico Nixon? Non è stato mai simpatico nemmeno ai milioni di individui che l’hanno eletto. Ma insisto nel dire che tutto questo non c’entra con la triste storia che è accaduta. Nixon è rimasto intrappolato dalla sua stessa mentalità contorta, dalle sue fobie, dai suoi continui sospetti ingiustificati verso coloro che lo circondavano. Poi anche da un incurabile complesso di inferiorità nei confronti della stampa in genere e degli intellettuali dell’Est (degli Stati Uniti, ndr)».
La prova finale che Nixon aveva mentito è venuta dalle registrazioni di conversazioni fra Nixon stesso e i suoi i fedelissimi. Il presidente era al corrente che ogni volta che si apriva bocca, nell’Oval Office, il registratore segreto si metteva in azione. Possibile che fosse sciocco fino a questo punto?
WOODWARD: «Ci sono due spiegazioni per questa faccenda. Ma l’unico che potrebbe dire una parola definitiva al riguardo è Nixon. Dubito che ci chiarirà mai le idee. Secondo una versione (quella più attendibile) fu Harry Haldeman (capo di gabinetto della Casa Bianca, poi condannato, ndr) che verso il 1970 ebbe l’idea brillante. Pare che gli riuscì di convincere il presidente che bisognava conservare per la storia tutto quello che si sarebbe discusso in quei mesi alla Casa Bianca. Nixon, pare, fu entusiasta della proposta e ordinò immediatamente l’installazione dei microfoni. Considerando che l’amministrazione non badava a spese in questo campo, stupisce il fatto che il sistema non fosse nemmeno tanto sofisticato: c’era un vecchio registratore Sony nascosto dentro un armadio che era azionato a suoni. E una volta in funzione era impossibile fermarlo. L’altra teoria è che fu lo stesso Nixon a escogitare il piano, ossessionato com’è dalla mania dei congegni elettronici, dai telefoni segreti e altra roba del genere. Così pensò di dotare anche la Casa Bianca di quell’assurdo sistema di spionaggio su se stesso. Se Alexander Butterfield, uno degli assistenti presidenziali, non avesse testimoniato quasi per caso che anche l’Oval Office era"bugged", cioè tappezzato di microfoni segreti, nessuno sarebbe mai venuto a conoscenza del fatto che i nastri esistevano».
BERNSTEIN: «C’è una nota di follia, di irrealtà in tutta questa storia, dal principio alla fine. L’amministrazione Nixon era composta da nevrotici squilibrati oltre che da disonesti».