Valeria Palumbo, L’Europeo n°12 dicembre 2012, 12 dicembre 2012
18 MILIONI DI CREPE
MENTRE SIAMO QUI la 50esima donna sta orbitando sopra di noi nello spazio. Se possiamo spedire 50 donne nello spazio, un giorno lanceremo una donna nella Casa Bianca. Non siamo stati in grado di rompere il soffitto di cristallo più alto e più resistente della nostra epoca, ma grazie a voi adesso quel soffitto ha 18 milioni di crepe (i 18 milioni di preferenze raccolti dalla Clinton, ndr), e la luce lo attraversa come mai prima d’ora, riempiendoci tutti con la speranza e la certezza che la strada la prossima volta sarà un po’ più facile». Così parlò Hillary Clinton nel giugno 2008, ammettendo la sua sconfitta davanti al candidato Barack Obama alle primarie democratiche. «E stata la prima vera candidata con chance di vincere le presidenziali. Ma ha avuto la sfortuna di capitare in un momento in cui essere donna non costituiva più una novità o un plus, mentre la vera novità era un presidente nero», spiega Raffaella Baritono, che insegna Storia e istituzioni dell’America del Nord presso la facoltà di Scienze politiche di Bologna ed è membro della Società italiana delle storielle. In questo momento sta scrivendo un libro su Eleanor Roosevelt, la donna che non ha soltanto cambiato il concetto di first lady, in quanto moglie di Franklin Delano Roosevelt. Ma che, come pochi da noi ricordano, presiedette la Commissione Onu che approvò la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il 10 dicembre 1948. Ovvero racchiuse in sé i due ruoli di spicco raggiungibili dalle donne statunitensi: quello di first lady e quello, più democratico e paritario ai nostri occhi, di attivista politica e ambasciatrice.
«Eleanor Roosevelt», chiarisce Baritono, «non ha creato la figura della first lady, che, in compenso, è un’invenzione tutta statunitense. Il presidente è anche capo dell’esecutivo e per questo può delegare chi vuole a rappresentarlo: già George Washington affidò a sua moglie, Martha Dandridge Custis, alcuni compiti. Questa scelta deriva non solo dalla fiducia che di solito si nutre più per una moglie che per un vicepresidente, spesso scelto in base a equilibri politici. Ma anche dal fatto che la Casa Bianca è abitazione e ufficio e le first lady ne hanno sempre curato l’organizzazione».
Fare salotto potrebbe apparire poco influente. «Ma la centralità assunta dal presidente, negli Stati Uniti, dal New Deal in avanti, ha aumentato pure il peso delle mogli. Certo, c’erano già donne che avevano un’esperienza pubblica e avevano preso parte ai movimenti per i diritti civili e femminili: Eleanor, appunto, era tra queste». Tanto che per la Roosevelt l’elezione del marito, all’inizio, fu un handicap. La giornalista Lorena Hickok (sua carissima amica e forse sua amante) la convinse, però, che avrebbe potuto giocare un ruolo di rilievo. E così fu. «Da lei in poi l’elettorato nutre aspettative anche verso la first lady. Anche se la Roosevelt fu contestatissima per il suo impegno per i diritti civili», chiarisce Baritono. Il punto è che Eleanor era molto più radicale del marito: «Nel secolo scorso si è preteso che il ruolo della first lady fosse limitato alla filantropia. Ma distribuire soldi tocca questioni scottanti: dare aiuto ai neri, per esempio, o alle lavoratrici diventa un’azione politica. Questa fu la scelta di Eleanor, mentre sui diritti degli afroamericani l’amministrazione Roosevelt fu molto timida». Il rischio è dunque che si crei una frattura tra le agende politiche di marito e moglie. Che la moglie del presidente fosse ben più che la semplice padrona della Casa Bianca divenne evidente quando Lyndon B. Johnson volle assolutamente accanto a sé, mentre giurava come nuovo presidente sull’Air Force One, Jacqueline Kennedy, il cui tailleur era ancora macchiato del sangue del marito John F. Kennedy, appena ucciso. Si è dovuto comunque aspettare Jimmy Carter perché che la figura della first lady si "istituzionalizzasse", almeno in parte: è dai tempi di Rosalynn Carter, a cui il marito affidò nel 1977, tra mille polemiche, una missione diplomatica ufficiale in Sudamerica, che nei finanziamenti alla presidenza è previsto anche un contributo allo staff della moglie. «Il vero e proprio dibattito giuridico-costituzionale», spiega Baritono, «si è aperto, però, con Hillary Clinton, alla quale il marito Bill affidò la Commissione per la riforma sanitaria. I repubblicani la contestarono in base a una legge fatta dopo John F. Kennedy che vieta al presidente la nomina di familiari (John aveva nominato suo fratello Bob ministro della Giustizia, ndr). Ma il tribunale del distretto di Columbia smontò le accuse e riconobbe che il ruolo di first lady era quasi ufficiale per consuetudine, ovvero secondo la tipica common law anglosassone». Certo, era stata la stessa Hillary Clinton a rendere scottante la questione quando, durante la campagna elettorale, nel 1991, aveva affermato, come in uno spot pubblicitario: «It’s a two-for-one, blue piate special», ossia «Ne votate uno e ne prendete due». Di fatto quella della Clinton fu quasi una co-presidenza e questo apparve ai repubblicani come contrario al dettato costituzionale. «La first lady dev’essere una vera equilibrista», ammette Baritono. «Eleanor Rooseveit fu un caso a sé perché ebbe un profilo politico autonomo dentro e fuori il Partito democratico». In qualche modo Eleanor precedette la crescente personalizzazione della politica: «La famiglia è diventata fondamentale per un candidato: averla, nell’ottica statunitense, è garanzia di moralità. L’ha esibita molto anche Nancy Pelosi, prima presidente della Camera dei rappresentanti (2007-2011)». Il ruolo crescente delle first lady, però, rientra ancora in un modello femminile tradizionale. La svolta verso una concezione più "europea" è avvenuta solo nel 1991, e in modo quasi accidentale: «Il giudice della Corte suprema Clarence Thomas fu accusato di molestie sessuali dal procuratore Anita Hill: la commissione istituita per giudicarlo era tutta al maschile. Solo a quel punto i movimenti femminili si accorsero che non ci si poteva limitare a contestare il potere da fuori: bisognava occuparlo. La mobilitazione ha portato a un cambiamento reale nel 1992, con il mandato di Clinton».
UN’AFFERMAZIONE del genere sembra paradossale in un Paese che, tra fine Ottocento e inizio Novecento, è stato all’avanguardia del femminismo: il diritto di voto è stato concesso nel 1920. Eppure ancora oggi la maggioranza delle donne al Congresso sono vedove o mogli di qualche deputato già noto. Proprio al contrario delle nostre prime deputate e senatrici, da Lina Merlin a Tina Anselmi: «Il movimento suffragista statunitense coincise con la prima crisi dei partiti e si sviluppò in ambiti diversi. Fu una trappola», spiega Baritono. «Perché la cultura politica femminile è cresciuta fuori dai partiti e, quando questi sono diventati sempre più importanti, le donne hanno fatto fatica a rientrarvi. Eppure, all’inizio, in molti comitati era stata stabilita la regola, poi non rispettata, delle quote al 50% e ovunque esistevano sezioni femminili dei partiti. Ma verso le ex suffragette si è sempre nutrita molta diffidenza. In più le donne hanno, a torto, accettato l’abolizione delle sezioni femminili negli anni Cinquanta e Sessanta». Di fatto, dunque, hanno provocato anche un arretramento nei ruoli di vertice.
«Ora però», aggiunge Baritono, «le cose sono cambiate, grazie anche alla lista Emily che finanzia le donne che decidono di candidarsi. In più l’opinione pubblica ha molti meno pregiudizi: nel 2008, nella corsa tra Hillary Clinton e Barack Obama per le primarie, nei polis non sembrò che il sesso fosse una discriminante decisiva». Però le donne al Congresso e nei ruoli politici di vertice restano poche: «Perché i collegi uninominali, che sono alla base del sistema politico statunitense, rendono difficile il ricambio. Si tende alla rielezione. E quindi si rieleggono i maschi che già c’erano: le donne ce la fanno, in genere, quando i vecchi candidati non si ripresentano».
LA SINGOLARITÀ STATUNITENSE ha generato anche l’insolita figura di Hillary Clinton, prima first lady "con potere decisionale", poi candidata alle primarie e infine segretario di Stato sotto Barack Obama: «Hillary ha utilizzato i suoi otto anni da first lady come esperienza pubblica, più di quanto abbia fatto con il suo seggio da senatore di New York (è stata eletta nel 2000 e nel 2006): ha stabilito contatti con l’estero e con uomini politici influenti, ha rafforzato i legami con le lobby. Si è creata un patrimonio politico, insomma». Rispetto a lei e a Rosalynn Carter, il ruolo di Michelle Obama appare dunque ben più limitato. «Però», suggerisce Baritono, «Michelle va collocata nell’attuale dibattito politico: l’immagine tipica della famiglia di colore è della madre single, di un focolare disgregato. Lei, ribadendo il suo ruolo di Mom-in-chief, ha dato un nuovo senso politico alla donna e alla famiglia nera. Per noi è difficile capirlo». Certo, anche negli Stati Uniti le diffidenze verso i single sono diminuite, anzi si sta molto attenti a garantire gli omosessuali e chi ha fatto scelte diverse dalla famigliona alla Mitt Romney. «La supersingle Condoleezza Rice, prima donna a ricoprire il ruolo di consigliere per la Sicurezza nazionale e poi segretario di Stato sotto George W. Bush dal 2004, non è stata mai eletta ma nominata. Se oggi si candidasse a un qualsiasi seggio la sua vita privata verrebbe, come sempre negli Stati Uniti, passata al setaccio. Ma il fatto di non essere sposata non sarebbe più un ostacolo». Se la svolta è stata quella di Clinton (Eleanor Rooseveit a parte), viene da pensare che Geraldine Ferraro (1935-2011), che si candidò come vicepresidente alle elezioni del 1984 insieme con Walter Mondale (sconfitto poi da Ronald Reagan), sia stata un’ombra. «Invece io credo che il suo caso andrebbe studiato meglio: si è trovata in un momento difficile del Partito democratico», sostiene Baritono. E in fondo, fallita la corsa presidenziale, la Ferraro, che era stata eletta alla Camera dei rappresentanti nel 1979, divenne ambasciatore presso la Commissione sui diritti umani all’Onu (1993-1996). Tolti comunque i tre casi di Nancy Pelosi, Condoleezza Rice e Hillary Clinton, sembrerebbe che, nonostante la vivacità del femminismo americano, le donne abbiamo ancora scarso peso in politica e quasi nessuna visibilità all’estero, se non sono first lady. «Non è del tutto vero», puntualizza Baritono. «Certo non esiste ne una Indira Gandhi ne una Angela Merkel statunitense. Ma le donne hanno un impatto sempre più forte a livello locale». Inevitabile pensare a Sarah Palin, governatrice dell’Alaska, scelta dal candidato repubblicano John McCain nella corsa alla presidenza persa contro Barack Obama nel 2008. La Palin, più di qualsiasi altra politica, è stata quasi un fenomeno di costume e, forse, ha avuto più impatto come leader del movimento ultraconservatore Tea Party, insieme con Michele Bachmann. Certo non è passata alla storia per le sue riforme. Le governatrici attualmente in carica sono sei: Christine Gregoire nello Stato di Washington; Beverly Perdile in North Carolina; Jan Brewer in Arizona; Susanna Martinez in New Mexico; Mary Fallin in Oklahoma; Nikki Haley in South Carolina. Dal 2013 ci sarà Maggie Hassan (che ha vinto il 6 novembre 2012) in New Hampshire. Ben quattro, elette tra 2009 e 2011, sono state le prime donne a ricoprire questo ruolo nel loro Stato: i 18 milioni di crepe citati da Hillary Clinton, nonostante tutto, sono aumentati.