Scott Wallace, Nationl Geographic 2/1/2013, 2 gennaio 2013
FORESTA PLUVIALE VENDESI
[L’estrazione petrolifera minaccia uno degli ultimi paradisi selvaggi rimasti al mondo] –
HA PIOVUTO MOLTO DURANTE LA NOTTE. Le foglie gocciolano ancora quando Andrés Link si carica in spalla lo zaino e si incammina nell’aria fredda e umida. È da poco passata l’alba e la foresta è già una cacofonia di suoni: il verso gutturale dell’aluatta rossa, il martellio sordo del picchio, lo squittio delle scimmie scoiattolo che si inseguono da un ramo ali’altro. In lontananza attacca un curioso ululato cantilenante che si affievolisce e scompare, poi ricomincia da capo.
«Ascolta!», dice Link afferrandomi il braccio e tendendo l’orecchio. «Sono due scimmie titi, le senti? Stanno cantando un duetto». Imita l’urlo acuto e ritmato di una delle scimmie, poi la risposta dell’altra. Solo allora riconosco le due diverse melodie che compongono il contrappunto.
Questa roca sinfonia è la musica di sottofondo che accompagna Link tutte le mattine mentre attraversa quella che potrebbe essere l’area più ricca di biodiversità del nostro pianeta. Primatologo della Universidad Peruana Los Andes, Link sta studiando un primate platirrino. Fatele belzebù, ed è diretto verso un deposito naturale di sale a mezz’ora di cammino dove spesso si riunisce un gruppo di scimmie di questa specie.
Kapok giganteschi e ficus dalle radici immense si ergono come colonne romane nella volta arborea. I rami sono coperti di orchidee e bromeliacee che sostengono intere comunità di insetti, anfibi, uccelli e mammiferi. Qui c’è una tale ricchezza di vita che persino le pozzanghere create dal passaggio degli animali pullulano di minuscoli pesciolini.
Dopo aver percorso un sentiero in discesa arriviamo in un tratto di foresta punteggiato da alberi dall’aspetto bizzarro; detti anche "palme che camminano", appartengono alla specie Socratea exorrhiza e hanno radici alte un metro simili a trampoli che consentono alla palma di spostarsi leggermente alla ricerca di luce e sostanze nutritive. E questo è solo uno dei milioni di adattamenti evolutivi che si possono osservare nelle vicinanze della Stazione della Biodiversità di Tiputini (Tas), una struttura gestita dalla Universidad San Francisco de Quito e situata in un’area di 650 ettari di giungla incontaminata ai margini del Parco nazionale Yasuni, che abbraccia circa 9.800 chilometri quadrati di foresta pluviale nell’Ecuador orientale. «Si potrebbe trascorrere qui la vita intera e scoprire qualcosa di sorprendente ogni giorno», afferma Link. Nella foresta attorno alla TBS vivono dieci specie di primati e un’enorme varietà di uccelli, pipistrelli e rane difficile da trovare in altre regioni sudamericane.
Tanta abbondanza è dovuta in gran parte alla posizione geografica dello Yasuni. Il parco si trova a cavallo tra Cordigliera delle Ande, Equatore e regione amazzonica, un "punto caldo" ecologico in cui convergono comunità estremamente ricche di piante, anfibi, uccelli e mammiferi sudamericani. Qui piove quasi ogni giorno per tutto l’anno e i cambiamenti di stagione si avvertono poco. Sole, caldo e umidità sono costanti.
Questa parte dell’Amazzonia ospita anche due popolazioni indigene, i Kichwa e gli Huaorani, che vivono in insediamenti sparsi lungo le strade e i corsi dei fiumi. Il primo contatto pacifico tra Huaorani e missionari protestanti avvenne sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso. Oggi la maggior parte delle comunità huaorani ha scambi commerciali e persino turistici con il resto del mondo, al pari dei loro nemici storici, la tribù dei Kichwa. Tuttavia, due gruppi di Huaorani hanno scelto di non accettare questi contatti, preferendo relegarsi in un’area montuosa della foresta - la cosiddetta Zona Intangible - istituita appositamente per proteggerli. Purtroppo la zona, che coincide con il settore meridionale del parco Yasuni, non comprende per intero il loro territorio d’origine, e questi guerrieri nomadi hanno più volte attaccato gli abitanti degli insediamenti e i taglialegna sia all’interno che all’esterno dell’area interdetta. Gli episodi più recenti si sono verificati nel 2009.
MA LO YASUNI cela anche un altro tesoro; si trova sottoterra, e rischia di mettere in pericolo il prezioso ecosistema in superficie. Parliamo di un giacimento non sfruttato di centinaia di milioni di barili di greggio che nel corso degli anni ha portato all’assegnazione di un certo numero di concessioni petrolifere all’interno del territorio del parco nazionale.
Oggi, nella battaglia sul destino dello Yasuni, sembra che gli interessi economici stiano avendo la meglio sulle ragioni della tutela ambientale. Nel settore settentrionale del parco ci sono almeno cinque concessioni attive e per un paese povero come l’Ecuador resistere alla tentazione delle trivellazioni è pressoché impossibile. Già oggi metà dei proventi delle esportazioni del paese deriva dal petrolio, quasi tutto estratto nelle province orientali dell’Amazzonia.
Nel 2007 il presidente Rafael Correa avanzò la proposta di rinunciare per un periodo indeterminato allo sfruttamento dei giacimenti, per un valore stimato di 850 milioni di barili, dell’angolo nordorientale dello Yasuni, in un’area nota come Blocco ITT (dalle iniziali dei nomi di tre giacimenti: Ishpingo, Tambococha e Tiputini). Come risarcimento per la conservazione degli habitat incontaminati e per evitare remissione nell’atmosfera di 410 milioni di tonnellate di CO, da combustibile fossile, Correa chiese al mondo di compensare il suo paese con 3,6 miliardi di dollari, quasi la metà della cifra che avrebbe guadagnato sfruttando le risorse petrolifere ai prezzi del 2007. Il denaro, affermò, sarebbe stato usato per per finanziare progetti di sviluppo sociale e di energie alternative.
All’atto della presentazione, la cosiddetta Iniziativa Yasuni-iTT fu accolta dai sostenitori come una pietra miliare del dibattito sui cambiamenti climatici e riscosse grande successo in Ecuador. Sondaggi nazionali hanno dimostrato che il paese è sempre più convinto che lo Yasuni sia un patrimonio naturale da proteggere. Ma la risposta internazionale è stata tiepida. A metà del 2012 erano stati raccolti soltanto 200 milioni di dollari. A quel punto Correa ha lanciato una serie di ultimatum minacciosi che hanno portato i suoi detrattori a bollare la proposta come un ricatto bell’e buono. Oggi, mentre l’iniziativa è in fase di stallo e il presidente ribadisce che il tempo sta per scadere, nell’Ecuador orientale, anche dentro i confini dello Yasuni, le attività estrattive proseguono.
MEZZ’ORA DOPO AVER LASCIATO il laboratorio della TBS Andrés Link raggiunge l’entrata di una stretta grotta ai piedi di un burrone. È qui che si trova il deposito di sale che stava cercando, ma stamattina non ci sono scimmie. «Hanno paura dei predatori», spiega il ricercatore fissando il cielo lattiginoso. «Preferiscono non scendere dagli alberi in giornate nuvolose come questa». Le scimmie forse temono i giaguari o le aquile arpia, ma Link non riesce a fare a meno di pensare a un’altra minaccia più a lungo termine e potenzialmente definitiva: l’avanzata della frontiera del petrolio.
«Si capisce che c’è un grande interesse a trovare il petrolio», dice. «Il mio timore è che basta davvero poco per far partire le attività e poi...». La frase si interrompe, quasi non riuscisse a esprimere un pensiero tanto doloroso.
Quella sera, al laboratorio della TBS, siedo m veranda con il direttore e fondatore Kelly Swing. Gli chiedo quali cambiamenti si avvertano con l’avanzare della frontiera del petrolio. «Di certo sentiamo la pressione», dice osservando la foresta. «È abbastanza vicina da renderci nervosi».
Gli impianti di produzione più vicini distano solo 13 chilometri in direzione nord-est, in un terreno dato in concessione alla compagnia petrolifera statale, Petroamazonas. I ricercatori hanno riferito a Swing che sentono il ronzio dei generatori quando si inoltrano nella foresta e sempre più spesso elicotteri che volano basso fanno fuggire gli animali oggetto dei loro studi. La luce fioca dei flore, le torce che bruciano gas, rovina la vista del cielo notturno che si gode dalla torre d’osservazione della stazione, a 36,5 metri d’altezza tra i rami di un maestoso kapok.
Probabilmente il successo o il fallimento dell’Iniziativa Yasuni-iTT non avrà conseguenze dirette su questo tratto di foresta, prosegue Swing. Tuttavia l’eventuale fallimento della proposta potrebbe infliggere un duro colpo ai progetti di conservazione ambientale e scatenare un’ondata di trivellazioni anche nel settore meridionale dello Yasuni, se non addirittura nella Zona Intangibile.
«Col passare del tempo le concessioni petrolifere sono diventate come sassi per guadare un fiume», continua Swing. «Non appena se ne attiva una ci sono pressioni sempre più forti per concederne altre nei blocchi rimasti a est e a sud».
Le autorità dell’Ecuador insistono che l’estrazione del petrolio può essere effettuata in modo responsabile anche negli habitat più sensibili. Sostengono che i metodi attuali sono nettamente migliori rispetto a quelli altamente inquinanti in uso negli anni Settanta e Ottanta, quando un gigante del petrolio statunitense, la Texaco, avrebbe contaminato diversi siti trascinando la sua società madre, la Chevron, in una causa legale plurimiliardaria con le comunità indigene. Secondo Swing, tuttavia, l’intensificarsi delle attività ha effetti devastanti sugli habitat ricchi di specie come lo Yasuni, a partire dai milioni di insetti, molti dei quali ancora sconosciuti alla scienza, che muoiono ogni notte bruciati dalle fiammate che fuoriescono dai pozzi petroliferi.
Nelle foreste interessate dalle attività petrolifere si registra la morte di quasi il 90 per cento delle specie che gravitano intorno ai siti disboscati, afferma Swing. «Chi può considerarlo accettabile?».
POCHI GIORNI DOPO mi imbarco con un gruppo di biologi della Wildlife Conservation Society (Wcs) per ridiscendere il fiume Tiputini in direzione est. Lungo le sponde sinuose del fiume, che costeggia parte del confine settentrionale del Parco, si susseguono gli alberi di cecropia dalla corteccia bianca. Sopra di noi, dagli alti rami dei kapok, pendono i nidi delle oropendole.
Fatta eccezione per il rumore del nostro fuoribordo, sul fiume non c’è traccia di presenza umana. Almeno così sembra fino a quando, superata un’ansa, ci imbattiamo in una lunga chiatta motore ormeggiata alla riva. La sponda brulica di operai con caschi protettivi e stivaloni, la terra è nuda e rossa, sfregiata dai cingoli dei bulldozer. Sulla sponda opposta c’è una ferita simile - ampia e rossastra - che da l’impressione che la strada abbia saltato il fiume come per magia, entrando nel parco nazionale di propria iniziativa. Sollevo la macchina per scattare una foto e subito due soldati sulla chiatta mi urlano: «Vietato fotografare!».
Funzionari in tuta da lavoro azzurra e casco ci fissano senza aprire bocca mentre ci inerpichiamo in mezzo al fango e saliamo sulla chiatta. Un uomo alto e robusto mi viene incontro e, con aria amichevole, mi porge una mano grassoccia. «Io sono uno dei cattivi», dice in inglese ridendo prima ancora che possa capire il suo nome. Robin Draper, 56 anni, sembra sorpreso della nostra visita improvvisa quanto lo siamo noi per ciò che stiamo vedendo. «Siamo qui da settimane, e la vostra è la prima imbarcazione che è apparsa sul fiume», continua Draper.
Nato a Sacramento, in California, Draper ha lavorato a lungo nei giacimenti di petrolio in Alaska, è proprietario e manovratore della chiatta Alida e lavora a contratto per la Petroamazonas. È evidente che, senza pubblicizzare o informare chicchessia delle proprie intenzioni, la compagnia statale sta avanzando a pieno ritmo nel Blocco 31. Alcuni anni fa gli ambientalisti avevano celebrato la vittoria su un’altra compagnia, la Petrobras, alla quale era stato impedito di costruire la stessa strada. In seguito però l’autorizzazione è stata concessa alla Petroamazonas e adesso, mi spiega Draper, la strada di 14,5 chilometri che collega il fiume Napo al Tiputini è stata completata. In più, i bulldozer si sono già inoltrati nella foresta dall’altra parte del Tiputini.
L’operazione è destinata a suscitare clamore, visto che rappresenta una nuova invasione del parco. I detrattori dell’intervento sostengono inoltre che le riserve di 45 milioni di barili del Blocco 31 non sono tali da giustificare un investimento tanto massiccio nella concessione. La vera ragione per entrare nel Blocco 31, dicono, sarebbe costruire le infrastrutture per l’eventuale entrata nel vicino Blocco ITT, cosa che oltre a minare la credibilità dell’iniziativa costituisce una grave minaccia per gli habitat e i gruppi di indigeni isolati che frequentano le zone montuose della foresta. Rap- porti recenti parlano della possibile presenza nell’area di questi gruppi, che il governo è obbligato per legge a proteggere.
Draper non esprime opinioni al riguardo ma sostiene che la compagnia fa del suo meglio per creare il minor disturbo possibile nell’area, come dimostra l’uso della sua chiatta. «Non hanno intenzione di costruire un ponte tra le due rive», afferma mentre beviamo una tazza di caffè nel casotto di navigazione dell’Alicia. «Le intenzioni sono buone», precisa alla fine, «ma per come la vedo io noi non dovremmo neppure essere qui».
RIPRESA LA NAVIGAZIONE, chiedo a Gaio Zapata, biologo Wcs, quale potrebbe essere l’impatto della nuova strada sulla foresta. «La compagnia farà di tutto per controllare l’accesso alla strada», risponde. «Ma non potrà impedire ai Kichwa e agli Huaorani di occuparla con i loro insediamenti».
È già accaduto in passato, mi spiega. Quando, negli anni Novanta, le compagnie petrolifere costruirono all’interno dello Yasuni la cosiddetta Maxus Road, furono adottate misure per bloccare l’accesso agli estranei, ma gli indigeni che vivevano nel parco trasferirono i loro villaggi accanto alla strada e cominciarono a cacciare animali da vendere sul mercato nero. «Con tutta la gente che arriverà qui ci sarà una forte domanda di carne che metterà in pericolo la vita di animali e uccelli di grandi dimensioni. Ci saranno ripercussioni sociali negative. La storia si ripeterà».
Man mano che procediamo lungo il fiume il paesaggio si trasforma, appiattendosi fino a somigliare a un vasto acquitrino ricco di palme açaí. Il nostro GPS indica che siamo entrati nel Blocco ITT, l’epicentro della controversia sull’oro nero. Attracchiamo sulla sponda dove un cartello dipinto a mano segnala che ci troviamo a Yana Yaku, un piccolo villaggio kichwa.
Il capo della comunità Cèsar Alvarado emerge dalla sua casa dal tetto basso e ci racconta dell’epoca - lui era un ragazzine - in cui arrivarono le compagnie petrolifere. I primi uomini giunsero con gli elicotteri. Poi fu la volta delle chiatte cariche di case mobili per gli operai e di trattori, che sradicarono gli alberi e trasportarono le grandi attrezzature per la ricerca del petrolio. «C’era un’intera città di operai», ricorda l’uomo, indicando il fitto sottobosco con un ampio gesto della mano. «Erano brave persone, dividevano il cibo con me».
Alvarado, che ha 49 anni, è a piedi nudi e sembra ancora più magro nella larga tuta che indossa. Ci guida attraverso un sentiero fangoso oltre le traballanti casupole di Yana Yaku. Vuole mostrarci cos’erano venuti a fare tutti quegli operai tanto tempo fa e il monumento solitario che hanno lasciato. Raggiungiamo una radura ombrosa dove ci attende una visione sorprendente. Sembra una sorta di scultura, un crocifisso astratto costruito con tubi, valvole e raccordi a gomito. Alto quasi quattro metri e mezzo, è arrugginito e coperto di muschio; fa pensare a un idolo perduto di un film di Indiana Jones. Ma in realtà non è affatto un oggetto dimenticato. Anzi, è il fulcro intorno a cui ruota tutta la questione Yasuni-iTT: un pozzo, sigillato, per l’esplorazione del giacimento Tiputini. È grazie a questo pozzo e ad altri simili che le autorità sanno che nel Blocco ITT si trova più del 20 per cento delle riserve di petrolio dell’Ecuador, stimato in circa 850 milioni di barili di greggio. Diffìcile immaginare una prova più lampante della potenziale ricchezza di oro nero del paese.
«E se gli operai tornassero?», chiedo ad Alvarado. Vedrebbe di buon occhio un impianto per l’estrazione del petrolio vicino al suo villaggio? «Vogliamo salute e istruzione per la nostra comunità», risponde. «Se quella gente avrà cura dell’ambiente, allora saremo favorevoli».
PER LA MAGGIOR PARTE DEGLI HUAORANI, invece, la prospettiva non è affatto allettante. In un mattino grigio e appiccicoso, lascio la città di Coca su un camion con alcune guide indigene. Percorreremo la strada Auca, costruita dalla Texaco negli anni Settanta per trasportare fino ai giacimenti le attrezzature per la trivellazione e per costruirvi l’oleodotto, che taglia in due il territorio originale degli Huaorani. Oltre al danno, c’è la beffa; il nome dato dalla compagnia alla strada (auca, "selvaggio") è lo stesso appellativo con cui gli Huaorani vengono definiti dai loro nemici. Siamo diretti al ponte sul fiume Shiripuno, il punto d’accesso alla Zona Intangible in cui almeno due gruppi di Huaorani, i Taromenane e i Tagaeri, vivono in volontario isolamento dal mondo.
Avanzando sulla striscia d’asfalto serpeggiante, attraversiamo un paesaggio di ranch e colline spoglie che testimoniano l’incontenibile fame di terra di chi arrivò qui dopo la costruzione della strada 40 anni fa. Lungo i sentieri che si diramano dall’Auca sorgono alcuni villaggi impoveriti abitati da Kichwa e comunità miste.
Nel punto in cui la strada svolta bruscamente a destra e scompare in un intrico di alberi e foglie noi andiamo a sinistra, seguendo le tracce dei battistrada su per una ripida collina. Ho sentito dire che di recente gli indigeni isolati sono stati visti fuori dalla loro zona, in un’area in cui le attività petrolifere sono in pieno svolgimento. Presto ci troviamo a percorrere un labirinto di stradine secondarie collegato a pozzi di petrolio e stazioni di pompaggio. Affrontato un tornante, con le ruote posteriori che slittano nel fango, ci troviamo faccia a faccia con un’alta parete di giungla che interrompe di colpo la strada. Davanti a noi sulla destra, dietro una recinzione metallica, si erge un nuovo impianto di trivellazione. Un cartello sul cancello identifica il sito come "pozzo Nantu E". Poco più in là, nel bosco, si scorge un gruppetto di capanne con il tetto di paglia: è il villaggio huaorani di Yawepare.
Appena saltiamo giù dal camion veniamo circondati da cani. Uri uomo muscoloso in pantaloncini e T-shirt attillata vuole sapere di che cosa mi occupo. Soddisfatto perché non lavoro per la compagnia petrolifera mi invita a chiacchierare nella vicina capanna senza tetto usata come luogo di riunione. Si chiama Nenquimo Nihua, mi dice in ottimo spagnolo, e attualmente ricopre il ruolo di capo villaggio, un incarico biennale.
«Questa è una zona pericolosa», avverte Nihua. Le tensioni sono aumentate da quando, alcuni mesi fa, sono arrivati gli operai che lavorano al pozzo lì vicino. Gli abitanti del villaggio sono preoccupati che il frastuono provocato dai veicoli pesanti e dai macchinai! possa suscitare una reazione violenta da parte delle tribù isolate che vivono nella giungla circostante, che già si sentono circondate nel loro stesso territorio. «Sono costretti a uscire dalla foresta», prosegue l’uomo. «Ma noi non vogliamo entrare in conflitto con loro, vogliamo che si sentano tranquilos».
Nihua mi rivela che solo tre settimane fa una ventina di uomini della tribù nomade è stata nel posto dove ci troviamo; un gruppo di guerrieri nudi, tutti armati di lance e cerbottane. Sono arrivati di notte, hanno dormito nella capanna collettiva e la mattina seguente non c’erano più.
Pur essendo in molti casi imparentati con loro, molti Huaorani che hanno scelto uno stile di vita più moderno temono gli attacchi di Taromenane e Tagaeri. Tuttavia, i gruppi nomadi sono anche fonte d’orgoglio, incarnano il simbolo della resistenza tribale e sono un monumento vivente alle loro tradizioni ancestrali. Nihua racconta che lui e i suoi familiari lasciano asce e machete nel bosco per i parenti; piantano ortaggi perché si nutrano e organizzano pattuglie armate per respingere gli intrusi che potrebbero far loro del male. «Noi qui abbiamo deciso di prendere posizione», afferma gonfiando il petto. «Vogliamo dire basta alle attività petrolifere, basta al disboscamento e basta ai colonizzatori nelle nostre terre».
POCO PRIMA DELLA FINE DELLA STRADA AUCA ci fermiamo in corrispondenza di un ponte tremolante e trasferiamo bagagli e attrezzature su una piccola imbarcazione. Discenderemo il fiume Shiripuno per arrivare fino al Cononaco e nella Zona Intangibile. Poiché ai forestieri è consentito entrare nella zona solo su invito degli Huaorani, mi sono organizzato per fare il viaggio in compagnia di una guida huaorani, Otobo Baihua.
Basso e robusto, spalle larghe e sorriso pronto, Otobo ha 36 anni e mi racconta che un tempo lavorava per le compagnie petrolifere ma che ha deciso di dedicarsi a un’occupazione più "verde". «Troppo inquinamento», dice nel suo spagnolo imperfetto. «Ho visto morire molti animali. Mi sentivo male». Ora ha un’attività di ecoturismo e accompagna i viaggiatori più avventurosi a incontrare il suo popolo fin dentro la zona interdetta.
Navighiamo nel mezzo di uno spettacolo naturale straordinario: scimmie che si dondolano tra i rami, tucani che strillano sulle cime degli alberi. Un grosso capibara scivola pigramente nel- l’acqua. Otobo si ferma per indicare i luoghi in cui, in passato, i guerrieri huaorani hanno teso imboscate agli operai e dove, più di recente, i Tagaeri e i Taromenane hanno trafitto con le lance alcuni taglialegna non autorizzati per poi scomparire nel cuore della foresta.
Nelle notti successive, seduti attorno al fuoco negli insediamenti in riva al fiume, gli Huaorani parlano della loro storia turbolenta e della loro sfiducia nei confronti delle compagnie petrolifere, Descrivono il paradiso che hanno perduto a causa del petrolio e quello che ancora condividono con i parenti che hanno scelto l’isolamento. Due giorni dopo raggiungiamo la nostra meta, il villaggio di Bameno. Edifici in blocchi di calcestruzzo e capanne di legno fiancheggiano una pista d’atterraggio d’erba lunga 560 metri. Andiamo a trovare Penti Baihua, un cugino di Otobo che è anche uno dei capi della comunità. Scalzo e a torso nudo, è impegnato in una vivace discussione con un gruppo di abitanti del villaggio, ma interrompe la riunione per darci il benvenuto.
«L’ITT è solo una piccola parte dello Yasuni», osserva quando gli chiedo dell’iniziativa. È preoccupato perché gli Huaorani non possiedono specifici diritti di proprietà riconosciuti dallo stato delle terre che si trovano nella Zona Intangibile. «In mancanza di questa certificazione si impadroniranno del nostro spazio, un pozzo di petrolio alla volta», afferma. «Non sappiamo quali piani abbia in mente il governo per il nostro territorio».
Penti ci fa strada attraverso la pista fino a una capanna collettiva. Vuole farmi conoscere suo zio, un uomo dai capelli color argento che si chiama Kemperi. È uno degli ultimi sciamani- giaguaro del suo popolo e gode di grande rispetto per la sua capacità di comunicare con gli spiriti della foresta. Indossa pantaloncini corti e una maglietta azzurra e ha lunghe trecce grigie che incorniciano un ampio sorriso di denti bianchissimi. Non sa esattamente quanti anni ha, spiega, ma era già un adulto quando si è unito a un gruppo di guerrieri che negli anni Quaranta ha teso imboscate e ucciso diversi operai della Shell.
Dodici operai in tutto persero la vita per mano dei guerrieri indigeni. In seguito la compagnia rinunciò alle attività nell’Ecuador orientale; la ricerca petrolifera nell’area è ripresa solo dopo che i missionari avevano rabbonito gli "aucas".
Quanti uomini hanno ucciso quel giorno Kemperi e i suoi compagni? L’anziano conta sulle dita della mano. Cinque, forse sei. «Li abbiamo uccisi per non farli tornare mai più», dice. Malgrado racconti una storia di violenza, l’uomo parla con la tranquillità di un veterano che rievoca la guerra combattuta da giovane. Ma che accadrebbe oggi se gli uomini con i caschi e la tuta tornassero? «Se torneranno li uccideremo», risponde semplicemente. «Ci comporteremo come ci hanno insegnato i nostri genitori e i nostri nonni».
DOPO QUASI TRE SETTIMANE DI VIAGGIO attraverso lo Yasuni a bordo di camion, barche e aerei leggeri, mi dirigo a Quito, la capitale dell’Ecuador, sulle Ande. Mi è stata offerta l’opportunità di parlare della controversa iniziativa Yasuni-iTT direttamente con il presidente Correa. Le guardie si mettono sull’ attenti quando attraverso il colonnato di palazzo Carondelet, la sede del governo di epoca coloniale, ed entro in una sala lussuosa con mobili decorati in oro e tende di broccato.
Carismatico, disinvolto e intelligente, Correa ha 49 anni e va dritto al punto. L’iniziativa Yasuni- ITT, dichiara, è ancora sul tavolo. «Abbiano sempre dichiarato che se non avessimo ricevuto il necessario sostegno entro un tempo ragionevole saremmo stati costretti a sfruttare le nostre riserve di petrolio, con la massima responsabilità dal punto di vista ambientale e sociale», osserva. L’iniziativa pone un dilemma reale, prosegue. «L’Ecuador è un paese povero. Abbiamo ancora bambini che non vanno a scuola. Abbiamo bisogno di servizi sanitari e di case decenti. Ma sappiamo anche di avere responsabilità nella lotta contro il riscaldamento globale, causato soprattutto dai combustibili fossili. Questo è il dilemma».
Mentre l’intervista si avvia alla conclusione, Correa da l’impressione di avere già preso la sua decisione: «Lo ribadisco, sfrutteremo le nostre risorse come fanno tutti gli altri paesi del mondo», dichiara. «Non possiamo essere mendicanti seduti su un sacco d’oro». Alla fine, però, aggiunge di essere disposto a sottoporre a referendum popolare quello che è conosciuto come il Piano B dell’Ecuador, vale a dire lo sfruttamento delle risorse dell’iTT.
SULLE SCALE FUORI DAL PALAZZO presidenziale, penso alla strada che ho visto costruire nel Blocco 31 e alla violazione della natura che rappresenta. A prescindere dall’esito dell’iniziativa ITT, settori significativi dello Yasuni rimarranno sotto assedio. «Se l’iniziativa Yasuni-iTT dovesse fallire, troveremo un altro modo di salvare il parco», mi ha detto Kelly Swing sulla veranda della stazione di ricerca, come se anche lui stesse già pensando a una soluzione alternativa. «La mia preoccupazione maggiore è che ogni compromesso con lo sviluppo si traduce in una perdita per la natura». Una brezza agitava le chiome degli alberi; in lontananza si sentiva strillare un macaco. «Dobbiamo per forza usare le nostre capacità per domare la natura e impossessarci di tutte le risorse spingendoci fino al punto di rottura?», si chiedeva Swing. «E saremo in grado di capire quando quel limite è stato raggiunto?».