Natalia Aspesi, la Repubblica 9/1/2013, 9 gennaio 2013
Hitler amava la musica, purché fosse pura, cioè germanica, e non contaminata, cioè ariana: il problema era, agli inizi degli anni Trenta, che tra i più celebri compositori, i sovrintendenti più stimati, i direttori d’orchestra più grandi, i solisti più noti al mondo, i cantanti più amati dal pubblico, le orchestre più gloriose, c’erano molti, troppi ebrei
Hitler amava la musica, purché fosse pura, cioè germanica, e non contaminata, cioè ariana: il problema era, agli inizi degli anni Trenta, che tra i più celebri compositori, i sovrintendenti più stimati, i direttori d’orchestra più grandi, i solisti più noti al mondo, i cantanti più amati dal pubblico, le orchestre più gloriose, c’erano molti, troppi ebrei. Una vergogna che andava cancellata col massimo rigore, del resto come tutti e tutto ciò che fosse «giudaico, bolscevico, negroide», cioè degenerato e subumano. L’imperativo « eliminare l’elemento ebraico dalla musica tedesca» cominciò a essere messo in pratica anni prima della salita al potere di Hitler nel marzo del ’33, e trovò subito una folla di musicisti e musicologi, giornalisti e accademici, pronti alla delazione, all’insulto, alla violenza, con un’efficienza patriottica, funebre e demente, che accompagnò l’antisemitismo di Stato sancito poi nel 1935 dalle leggi di Norimberga, sino all’orrore della “soluzione finale”, pianificata alla Conferenza di Wannsee nel 1942, tra i cui ideologi c’era l’acclamato violinista Reinhard Heydrich. Già all’inizio del Terzo Reich era diventato un problema anche il grande settecentesco Händel, di pura stirpe sassone, poi naturalizzato inglese: i suoi possenti oratori esaltavano l’immaginario onirico del regime, ma i testi erano «pura immondizia» e furono mondati da ogni accenno biblico. E Mozart? Bisognava arianizzare i suoi «capolavori dello spirito germanico », liberando opere come Le nozze di Figaro dal libretto scritto dall’ebreo convertito Lorenzo da Ponte, la cui traduzione tedesca era stata curata da Hermann Levi, il direttore d’orchestra del primo Parsifal di Bayreuth, imposto da re Ludwig di Baviera a un furibondo Wagner che lo aborriva in quanto non ariano. Molti anni dopo Joseph Goebbels avrebbe detto: «È stato Wagner a insegnarci cosa è un ebreo». Ogni nuova storia che ci ricorda l’Olocausto, riesce a essere necessaria, e lo è anche L’armonia delle tenebre (Archinto) di Nicola Montenz, che a 36 anni è un lungo elegante giovanotto abbigliato di nero, docente di cultura e comunicazione nel mondo antico; vive a Piacenza, è diplomato in organo (suo fratello gemello in arpa) ed è anche autore di quell’affascinante Parsifal e l’Incantatore, sul rapporto tra Ludwig II di Baviera e Wagner, pubblicato due anni fa sempre da Archinto, e adesso in Francia con critiche appassionate. Il nuovo libro ha la struttura di un tragico libretto d’opera: si apre con un prologo, che sprofonda subito il lettore nel feroce scontro tra ambiziosi nazisti, Goebbels, Göring e Rosenberg, acerrimi nemici tra loro, per accaparrarsi il monopolio di ogni forma di cultura, compresa la musica; e si chiude col quinto e ultimo atto, a Terezìn, il ghetto lager in Cecoslovacchia dove venivano ammassati gli ebrei illustri, tra cui una folla di musicisti. Lo scontro per sottomettere la cultura lo vinse Goebbels, diventato ministro della Propaganda, organizzando una monumentale struttura burocratica, gerarchica, capillare e pazza, divisa in sette ferree sezioni, una delle quali era la Reichmusikkammer, a cui facevano capo sette dipartimenti, ognuno dedicato a un ambito musicale: compositori, esecutori, organizzazione di concerti, gruppi corali e di musica popolare, editori, costruttori di strumenti musicali. In questo modo il governo nazionalsocialista già alla fine del 1933 aveva ottenuto il controllo assoluto della vita intellettuale tedesca e di chiunque volesse lavorare in ambito culturale e soprattutto musicale. Dodici anni dopo, a Terezìn, prima che partisse l’ultimo e definitivo convoglio per i forni crematori di Auschwitz nell’ottobre del ’44, (su 139.861 internati, ne sopravvissero meno di 20mila) fu concesso di organizzare concerti e opere, tra cui ben 55 in prima assoluta, composte nel lager stesso, per esempio, da Gideon Klein e da Pavel Haas. Spesso però le prove risultavano inutili, come avvenne nel caso dell’esecuzione del Requiem di Verdi, diretto da Raphael Schachter: per ben due volte i cori di 150 elementi furono deportati in massa ad Auschwitz dopo la prima esecuzione, e a Schachter fu concesso un terzo tentativo, in omaggio alla visita nel lager di Eichmann e per ingannare gli ingannabili inviati della Croce Ros- sa. Si sa chi furono i grandi della musica che per opportunismo, per paura, per la carriera, collaborarono, o per lo meno, non si opposero a un regime che decideva persino quali compositori dovevano essere cancellati, per esempio Mahler, Hindemith, Schoenberg, Weill, Krenek, Berg, Webern, quale tipo di musica poteva costare la perdita del lavoro e peggio, l’atonale, la dodecafonica, il jazz, le canzoni da cabaret, i ritmi a percussione, tutta la musica “degenerata” cui fu dedicata come all’arte, una grande mostra. Montenz ritiene ingiusto ergersi oggi a giudice di quei musicisti che, lo volessero o meno, divennero i portavoce ufficiali del regime, senza tener conto delle sfumature. Richard Strauss, che aveva accettato la presidenza della nazista Camera della musica, non condivise mai l’antisemitismo hitleriano, Wilhem Furtwängler aveva rifiutato di “arianizzare” il Berliner Philharmoniker e di rinunciare alla sua segretaria ebrea: si riteneva intoccabile ma cadde in disgrazia quando volle contro ogni veto dirigere Mathis il pittore, del “degenerato” e marito di una mezza ebrea Hindemith. Per ritornare nelle grazie del partito, accettò di dirigere Wagner a quel congresso di Norimberga che avrebbe promulgato le leggi razziali. Altre celebrità furono più allineate allo spirito del regime: il giovane Herbert von Karajan, iscritto al partito nazionalsocialista, ne diresse l’inno nella Parigi occupata, il soprano Elisabeth Schwarzkopf era membro del partito e cantava nei paesi invasi dall’esercito tedesco, l’allora celebre pianista Elly Ney scriveva a Goebbels di non voler dormire in alberghi che in passato avevano ospitato ebrei, il pianista Wilhelm Backhaus, considerato il massimo interprete di Beethoven, nel ’36 fece dichiarazione di voto a favore di Hitler, come il direttore d’orchestra Karl Bohm. D’altra parte non c’era bisogno di essere eroi per essere condannati: uno dei più grandi talenti musicali del Terzo Reich, il pianista Karlrobert Kreiten, nel maggio del ’43 dopo una discussione con un’amica sulla guerra forse perduta, fu arrestato, processato, impiccato. Aveva 27 anni. Nell’Italia fascista fu Arturo Toscanini a esporsi più di altre celebrità contro il nazismo. Nel 1933, con altri direttori d’orchestra, inviò a Hitler un telegramma aperto invitandolo a «porre fine alla persecuzione dei nostri colleghi in Germania per ragioni politiche o religiose». Furibondo, il Führer proibì che la radio trasmettesse le loro registrazioni. Poi si lasciò convincere dalla sua amica, seguace e ammiratrice Winifred Wagner, a invitare Toscanini a dirigere il Parsifal a Bayreuth, ma inamovibile fu Toscanini, che rifiutò ogni blandizia. Al suo posto arrivò il sempre servizievole Strauss. Ci fu anche chi, travolto dall’orrore, si pentì del suo appoggio iniziale al nazismo, come il musicologo Kurt Huber, che si unì alla Rosa Bianca e fu ghigliottinato nel 1943, o il compositore e organista Hugo Distler che travolto dai sensi di colpa si suicidò con il gas nel 1942.