Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  gennaio 09 Mercoledì calendario

Potremmo chiamarli i Magnifici Sette, se non facesse un po’ vecchio Far West. I Sette Samurai, invece, si addice soltanto all’Oriente estremo

Potremmo chiamarli i Magnifici Sette, se non facesse un po’ vecchio Far West. I Sette Samurai, invece, si addice soltanto all’Oriente estremo. Le Tigri è un nome abusato, adottato un ventina di anni fa per designare le economie allora emergenti dell’Asia. Poiché siamo in Africa, chiamiamoli allora leoni. I Sette Leoni della ascendente economia africana, che fanno sentire l’eco remota del loro ruggito sui mercati mondiali, attirano i capitali dei cacciatori di profitti, e mettono in fuga i luoghi comuni sull’Africa condannata al sottosviluppo. Sono uno strano branco. Costa d’Avorio, Ghana, Kenya, Nigeria, Sudafrica, Tanzania e Zambia hanno ben poco in comune, a parte il fatto di appartenere allo stesso continente. Il Sudafrica, con l’oro, il platino, i diamanti e le altre ricchezze del suo sottosuolo, e la sua industria forte e diversificata, è una vecchia certezza: anzi la sua possanza ha conosciuto tempi migliori e oggi è in flessione. La Nigeria, primo produttore continentale di petrolio, più popoloso Paese dell’Africa, beneficia più di ogni altro dell’alta quotazione del greggio. Il Ghana è da tempo il primo della classe, il più promettente dei giovani leoni, con tassi di crescita del Pil di rango cinese. Ma la Costa d’Avorio ancora squassata da una recente guerra civile, la Tanzania che sembrava inchiodata a un destino rurale, sono autentiche sorprese. Ed è proprio questa diversità a confermare quello che da almeno un anno analisti finanziari e sociologi vanno affermando nei loro studi: l’economia africana è entrata stabilmente in una fase propulsiva, seconda solo a quella asiatica per la rapidità e intensità della sua crescita. Una performance tanto più sorprendente in quanto è stata realizzata in mesi e anni durissimi per il resto dell’economia mondiale. Il continente del sottosviluppo si è messo inaspettatamente a produrre ricchezza e non sembra avere intenzione di fermarsi. I “sette leoni” hanno infatti in comune di essere citati in un rapporto riservato diffuso alcune settimane fa dall’Institute for International Finance, un centro studi molto influente ed esclusivo che ha tra i suoi soci e clienti le maggiori banche del mondo e altri colossi finanziari. Ce lo segnala Africanews, un sito italiano tra i più attenti alle notizie che riguardano quel continente. Il rapporto, dedicato alla regione a sud del Sahara, è interessante per almeno tre motivi. Primo, segnala le economie africane come un ambiente promettente ai potenziali investitori: «Ci sono ancora problemi e incognite», dice un dirigente dello IIF, «ma la tendenza dell’ultimo decennio a una crescita robusta appare sostenibile a medio termine». Non è dunque un passeggero incendio nella savana. In secondo luogo, colpisce proprio l’elenco apparentemente casuale dei sette Paesi. Certo questa fase di crescita non è comune a tutto il continente: permangono ampie regioni che tuttora non riescono a sollevarsi. Ma dal gruppo mancano altri “giovani leoni” che rendono il fenomeno complessivo ancor più impressionante. Per esempio l’Angola, che dalla fine della guerra civile conosce un travolgente boom petrolifero. O il Mozambico, che ha celebrato di recente il ventennale dei suoi accordi di pace (un luminoso successo della diplomazia italiana, purtroppo ricordato a Maputo e quasi del tutto dimenticato a Roma). Relativamente privo di materia prime — ma di recente sono state scoperte ingentissime riserve di gas naturale, di cui l’Eni sarà il primo beneficiario — apparentemente vincolato a un’economia di sussistenza agricola, il Mozambico si sta rivelando un altro fenomeno inatteso. Terzo motivo d’interesse, il fatto che la voce degli studiosi dell’Institute for International Finance non sia isolata, anzi è l’ultima ad aggiungersi a quello che è ormai diventato un coro. Dalla Banca Mondiale al Fondo Monetario, da giornali autorevoli come il Financial Times a prestigiose riviste accademiche come il Journal of Political Economy dell’università di Chicago, quasi tutti cantano i successi del Pil africano. Qualcuno non è d’accordo, e insiste nel vedere il lato mezzo vuoto del bicchiere, in particolare l’assenza pressoché totale di un’industria manifatturiera. Gli indicatori positivi però ci sono: una specie di miracolo, dopo che sul finire del secolo scorso quelle stesse voci avevano descritto un continente moribondo. Nell’ultimo ventennio del Novecento il potere d’acquisto degli africani era diminuito del 10 per cento. L’epidemia di Aids infieriva ovunque in Africa, falciando la generazione di mezzo, quella per definizione più produttiva. Poi, a partire dal Duemila, è successo qualcosa che gli economisti ancora non riescono bene a spiegare. La Banca Mondiale calcola che da dieci anni a questa parte il prodotto interno lordo pro capite degli africani sia aumentato di più di un terzo. Un exploit incredibile, di cui all’inizio si è parlato ben poco, perché nessuno era disposto a scommettere che sarebbe durato. O che sarebbe sopravvissuto alle impennate del corso del petrolio. Salvo scoprire, come ha fatto il Fondo Monetario, che nell’ultimo quinquennio la crescita non dipendente dalla produzione di greggio a sud del Sahara è stata mediamente del 5,4 per cento (dato che traiamo da un articolo di Sebastian Mallaby sul Financial Times). Nell’aprile del 2007 un professore di Oxford pubblicò un libro che avrebbe fatto molto discutere gli addetti ai lavori. L’ultimo miliardodi Paul Collier (tradotto in Italia da Laterza) descriveva un mondo in cui la maggioranza dei poveri stava uscendo dalla spirale del sottosviluppo. Restava un miliardo di dannati, quasi tutti abitanti in Africa. Vittime, spiegava Collier, di quattro «trappole» che impedivano loro di liberarsi dalla miseria e dalla fame. Eppure quelle trappole, fatali ad alcuni Paesi, non sembrano averne bloccati altri. Il malgoverno, per esempio («cattiva governance» nel gergo degli specialisti) non sembra impedire alla Nigeria la sua cavalcata, malgrado enormi problemi. O l’alone della guerra civile, apparentemente non fatale alla Costa d’Avorio. O la mancanza di accessi al mare, disastrosa per il Sud Sudan ma non per lo Zambia o per il Ciad. Il risultato netto è che quell’ultimo miliardo si sta forse dimezzando. Poi il professor Collier diresse la tesi di dottorato di una giovane e ambiziosa economista zambiana, Dambisa Moyo. Nel 2009 quella tesi divenne un libro, ancor più discusso dell’altro, e anche fuori dai soliti ambienti. Dead Aid (in Italiano La carità che uccide, Rizzoli) sosteneva che gli aiuti occidentali allo sviluppo non sono la soluzione, bensì il problema; che l’Africa stagnava non malgrado fosse aiutata, ma proprio perché lo era. E lodava l’ingresso massiccio, cinico e incondizionato dei capitali cinesi sulla scena economica africana. Giudicata col senno di oggi, l’allieva sembra aver avuto più ragione del maestro. Gli esperti convengono che l’avvento della Cina nel duplice ruolo di investitore e consumatore ha costituito un innegabile stimolo alla ripresa continentale. Tuttavia il fattore relativamente più determinante resta il mercato delle commodities, cioè delle materie prime. E non è detto che su questo punto l’analisi di Collier non sia destinata ad avere l’ultima parola. La dipendenza dal commercio delle risorse naturali era infatti la sua quarta trappola. Per quanto le economia africane si sforzino di diversificarsi e vivere di vita propria, non si può ancora escludere che siano alla mercé dell’imprevedibile domanda mondiale di energia e minerali, come lo furono due secoli fa di quella degli schiavi o, cent’anni dopo, della gomma e dell’avorio. INTERVISTA DI EUGENIO OCCORSIO SULLA REPUBBLICA