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 2013  gennaio 09 Mercoledì calendario

Notizie tratte da: Sofia Gnoli, Moda. Dalla nascita della haute couture a oggi, Carocci editore 2012, pp

Notizie tratte da: Sofia Gnoli, Moda. Dalla nascita della haute couture a oggi, Carocci editore 2012, pp. 367, 34 euro.

(vedi anche biblioteca in scheda 2224253
e libro in gocce in scheda 2248937)

Poupées de mode «Dai tempi di Luigi XIV la moda femminile europea si era per così dire francesizzata e, fino alla metà del Novecento, le ultime novità continuarono ad arrivare in massima parte da Parigi. Anche quando provenivano da altri paesi come l’America o l’Inghilterra, la Francia veniva considerata il centro di diffusione di ogni nuova foggia. Da Parigi, a partire dalla seconda metà del Seicento, si diffondevano ogni anno con regolarità per le maggiori capitali europee quelle emissarie inanimate della moda d’Oltralpe definite “bambole di moda”, o poupées de mode, abbigliate secondo l’ultimo grido della Corte di Francia».

Primi sarti italiani «Tra i primi sarti italiani di cui abbiamo notizie figura un certo Agostino, creatore degli abiti di Eleonora da Toledo e delle sue dame. A Lucca, nel secondo Settecento, operavano invece Matteo Lenzi, che si firmava “sarto da donna”, ed Elena Bestini, che cuciva le fogge alla “moda di Francia”».

Ideatore di fogge «Parigi fu la città che, prima delle altre, assistette all’affermarsi della figura del sarto come ideatore di fogge. Il celebre Leroy raggiunse la popolarità come sarto personale dell’imperatrice Giuseppina Bonaparte».

Rose Bertin Rose Bertin, modista ufficiale di Maria Antonietta. Davanti al suo atelier campeggiava una grande insegna con su scritto: “Marchande de modes de la Reine”.

Costo eccessivo Quando il marchese di Toulongeon si lagnò con la Bertin per l’eccessivo costo delle sue vesti confezionate in semplici materiali, lei rispose piccata: «Al pittore Vernet pagate soltanto la tela e i colori?».

Haute couture «La figura del couturier in senso moderno, come creatore di fogge e, di conseguenza, la nascita della haute couture si verificarono intorno alla metà dell’Ottocento con Charles Frederick Worth. [...] A proposito del grande ballo tenuto a Roma al Circolo Nazionale il 2 febbraio 1885 Gabriele D’Annunzio, eccellente cronista mondano, sulle pagine della “Tribuna” scrisse: “Verso le undici, finalmente, un fulgore di deità illuminò e riscaldò l’aria all’improvviso. Entrava la Duchessa di Sermoneta, la serenissima duchessa, magnificata da un abito worthiano di raso celestiale di velo dello stesso colore, costellato d’argento. Una triplice collana di perle, di brillanti, di smeraldi le cingeva il collo, un diadema le cingeva la testa; altre grosse gocce di perle le pendevano tra i capelli”».

Artista «Se fino ad allora il sarto era sempre stato visto come un semplice esecutore, con Worth il couturier cominciò ad essere considerato un artista. È stato lui il primo a decidere di far sfilare i modelli in anticipo rispetto alla stagione, ad apporre etichette con la sua griffe all’interno dell’abito, a utilizzare le indossatrici per presentare le sue creazioni e a proporre regolarmente nuove fogge cambiando in continuazione tessuti, guarnizioni, modelli. Con lui la moda è entrata nell’era moderna, diventando allo stesso tempo impresa creativa e spettacolo pubblicitario. Se prima era la cliente a indirizzare il sarto secondo i propri gusti, con Worth questo principio iniziò a ribaltarsi: “Le donne che vengono da me” dichiarava, “vogliono chiedere la mia idea, non seguire se stesse. Se io dico che cosa è adatto non hanno bisogno di altre evidenze. La mia firma ai loro abiti è sufficiente”».

Sarto imperiale Da quando, nel 1864, Worth venne nominato “sarto imperiale”, la sua ascesa fu inarrestabile. «Charles Dickens, nel suo periodico settimanale “All the Year Around”, lo descrisse così: “Un perfetto gentiluomo, sempre rasato di fresco, soprabito nero, cravatta bianca, camicia di batista con polsini trattenuti da gemelli d’oro, svolgeva le sue funzioni con la gravità di un diplomatico”».

Vestiti all’italiana «Anche se il riconoscimento di un’autentica moda italiana, svincolata dall’influenza francese, risale al Novecento, i primi sporadici tentativi per la sua creazione affondano le radici nel nostro Risorgimento, nell’atmosfera “vibrante” che precedette i moti rivoluzionari. Nel 1847 nel programma della “Moda nazionale”, periodico trimestrale annunciato a Livorno dall’editore Balinghieri, si legge: “Guerra, guerra alla Senna che da tanti secoli detta le leggi del buon gusto, guerra, guerra a questa malefica dominazione che aduggia le piante del giardino del mondo: guerra ai nemici del figurino italiano”. Poco dopo l’iniziativa proseguì con maggior senso critico quando, nel 1848, il giornalista Luigi Cicconi sulle pagine del “Mondo Illustrato” di
Torino – proclamandosi fautore dell’indipendenza dalle mode straniere
che, con i loro soli nomi, contaminano i “labbri italiani” – suggerì un patriottico “vestito all’italiana”».

Società italiana per l’emancipazione delle mode Il 26 aprile 1872, all’indomani di Roma Capitale, venne costituita la Società italiana per l’emancipazione delle mode e sulle pagine dell’“Emporio Pittoresco” e dell’“Illustrazione Universale” si proclamò «La ribellione alle mode di
Francia».

Il kimono di Paul Poiret Nel 1901, il sarto Paul Poiret iniziò a lavorare da Worth che, alla morte del suo fondatore, continuava a essere gestita dai suoi figliJean-Philippe e Gaston. La collaborazione non durò molto. «Le clienti più tradizionali di Worth, infatti, abituate ai falpalà, ai pizzi e ai volant, avevano un gusto molto distante da quello innovativo e stravagante del giovane Poiret. La situazione precipitò dopo che un giorno la principessa russa Bariatinsky, arrivata alla maison per dare uno sguardo agli ultimi modelli, si vide presentare da Poiret un grande kimono nero, di sua creazione, profilato di satin in tinta. L’orrore della principessa di fronte
a quella creazione dal gusto orientaleggiante non si fece attendere. Fu a quel punto che Poiret decise di interrompere ogni rapporto con Worth e di mettersi in proprio. Nel 1903, grazie a un prestito fattogli dalla madre, Poiret aprì la sua prima sartoria al n. 5 di rue Auber. Si trattava di una piccola sede composta soltanto da due saloni e da una
vetrina che si affacciava sulla strada».

Clienti Tra le grandi clienti di Poiret Isadora Duncan, la marchesa Casati e la contessa Greffulhe, musa di Marcel Proust.

Rosine Nel 1911 Poiret lanciò una linea di profumi usando il nome della sua secondogenita: Rosine.

Vestita a lutto Costretto dalle difficoltà finanziarie, sull’orlo del fallimento, nel 1926 Poiret liquidò la sua azienda e nel 1944, a 65 anni, morì quasi dimenticato. Poco prima della sua fine, un giorno incontrò Chanel, come di consueto vestita di nero, e le chiese: «Per chi, Madame, si è vestita a lutto?» e Chanel implacabile: «Per lei, Monsieur».

Plissé Il plissé Fortuny, brevettato dal sarto-artista nel 1909.

Vesti impudiche «Le vesti di Fortuny, generalmente confezionate in colori sfumati come il verdeacqua o il rosa pallido, producevano iridescenze inusuali e mettevano in evidenza ogni forma del corpo; per questo vennero da molti giudicate impudiche. Coloro che ebbero l’ardire di indossarle furono signore eccentriche e stravaganti come Isadora Duncan e Peggy Guggenheim, Eleonora Duse e la marchesa Luisa Casati Stampa [...] Privi di qualsiasi legame con le mode del momento, a differenza delle creazioni di Paul Poiret, gli abiti di Fortuny affascinarono anche esteti e artisti come Proust e D’Annunzio».

Proust Proust nella Recherche a proposito dei gusti di Albertine: «Quanto alle toilette, in quel momento le piacevano soprattutto gli abiti di Fortuny»

Pigmenti metallici «Romana, nata nel 1880 (morì nel 1944) in una famiglia della borghesia intellettuale, Maria Gallenga concentrò la sua attenzione sul tessuto stampato con un’esclusiva tecnica da lei brevettata, che consisteva nell’uso di pigmenti metallici. La stampa dei suoi tessuti – per lo più velluti, georgette e crespi di seta dai colori preziosi come l’azzurro zaffiro, il viola ametista, il rosso rubino – veniva eseguita a mano con speciali matrici di legno sul pezzo già finito, in modo tale da adattare il disegno alla forma e al taglio del capo».

Donne nell’industria Tra il 1914 e il 1917 le donne presenti nell’industria raggiunsero i 3 milioni, di cui 700.000 in sostituzione degli uomini. La necessità di lavorare in settori fino a quel momento riservati agli uomini fece emergere l’esigenza di un tipo di abbigliamento più comodo, consono al nuovo ruolo che la donna andava acquisendo nella società. Si cominciò con l’eliminare i vari strati di biancheria, per arrivare al busto che impediva la scioltezza nei movimenti. Nel marzo del 1916 su “Margherita” si legge: “Ora la moda è semplice: tailleur di grosso panno bleu o grigio, una moda esclusivamente giovanile, perché le gonne cortissime, le scarpe e gli stivaletti quasi ‘alla coturno’ non tollerano la decadenza, pretendono belle caviglie e anche procaci [...]. La femminilità sembra un po’ mascolinizzata e in uniforme”»

Tailleur e grembiule «Oltre al tailleur, tra le peculiarità della moda dell’epoca, si ricorda la gran voga del grembiule. Come si legge sul numero di “Vogue” del marzo del 1917: “L’ultima aggiunta al guardaroba è il grembiule a lungo limitato all’ala dei domestici. Audace e grazioso questo grembiule è sfacciatamente salito per le scale di servizio ed è entrato in salotto. È di seta, con lacci impertinenti che si annodano in modo civettuolo, con accattivanti tasche inutili e molti altri piccoli incanti”».

Telegrafiste denutrite «Un tempo le donne erano architettoniche come prue di navi. Ora assomigliano a piccole telegrafiste denutrite» (Poiret).

Jean Alexandre Patou «Nato nel 1880 a Parigi, Jean Alexandre Patou, dopo aver aperto nel 1910 una piccola sartoria, diede vita nel 1914 a una casa di moda con il suo nome. Negli anni venti le sue creazioni, semplici e sportive, erano ormai internazionalmente conosciute. I suoi modelli dai colori sobri – come il beige o una particolare sfumatura di blu battezzata bleu Patou – essenziali e moderni, incantarono attrici del cinema come Louise Brooks e vedette del music-hall come Josephine Baker. Anche se la vera icona del suo stile rimase sempre la nota tennista francese Suzanne Lenglen. Tra le numerose novità da lui apportate nella moda, si ricorda il logo con le iniziali JP che per primo appose come dettaglio decorativo sulle sue creazioni. Nel 1930, in piena recessione economica, lanciò il celeberrimo profumo Joy (creato da Henri Alméras e ancora oggi un classico delle fragranze femminili)».

Chanel che non sapeva cucire «Chanel non era una sarta, ma una creatrice di moda: «“Per prima cosa io non disegno – ripeteva – non ho mai disegnato un vestito. Adopero la matita solo per tingermi gli occhi e scrivere lettere. Scolpisco il modello, più che disegnarlo. Prendo la stoffa e taglio. Poi la appiccico con gli spilli su un manichino e, se va, qualcuno la cuce. Se non va la scucio e poi la ritaglio. Se non va ancora la butto via e ricomincio da capo. In tutta sincerità non so nemmeno cucire” [...] Tuttavia, si deve in qualche modo a Chanel lo stile immortale della gonna
in tweed, della maglia con il filo di perle, dell’abitino nero, del tailleur
senza collo profilato in passamaneria, dei bottoni gioiello, delle mitiche
omonime scarpe bicolori che lasciano il calcagno scoperto, delle borsette
in nappa trapuntata con la catena sulla spalla e della bigiotteria».

Chanel Mode «Nata il 19 agosto 1883 a Saumur, in Francia, in una famiglia poverissima – suo padre Albert era un venditore ambulante, sua madre Jeanne Devolle morì quando lei aveva appena 12 anni nel 1895 – dopo un’adolescenza trascorsa in orfanotrofio nel 1901, a 18 anni, cominciò a lavorare a Moulins in un negozio di biancheria e corredi da sposa. [...] Fin dall’inizio i sobri copricapi di Chanel, in netta rottura
con quelli iper-decorati tipici dei primi anni del Novecento, riscossero
un grande successo presso il bel mondo parigino. Forte della notorietà
ottenuta, finanziata da Capel, aprì nel 1910 la prima modisteria al n.
21 di rue Cambon. Lì iniziò a vendere i suoi primi cappelli con l’etichetta
Chanel Mode. Nel 1913 inaugurò una seconda modisteria nella
nota località balneare di Deauville. In quegli anni, osservando l’abbigliamento degli uomini di mare di Deauville, Chanel iniziò a creare
maglioni simili ai loro; in seguito reinterpretò al femminile il blazer di
Boy. Come scrisse allora la giornalista Janet Flanner: “Chanel ha lanciato
la ‘moda povera’, ha fatto entrare al Ritz i maglioni dei teppisti, ha
reso eleganti colletti e polsini da cameriera e foulard da bracciante, ha
vestito le regine con tute da meccanico”».

Rivoluzioni La prima rivoluzione di Chanel è legata all’uso di un materiale fino ad allora inconsueto e destinato alla confezione di indumenti di biancheria, la maglia di jersey. «Nel 1916, per la prima volta, un modello di Chanel comparve su “Harper’s Bazaar” con la dicitura The charming chemise dress. Si trattava di un modello di una seduzione innegabile, ma senza il minimo sentore di prima della guerra. Niente violette sul corpino [...] e per una ragione semplicissima: non c’era più il corpino [...]. L’abito era tagliato a V come una specie di sciabolata [...] e lasciava scoperto il collo nudo e anche qualcosa in più. Niente sbuffi alle maniche, né taglio chimono così caro a Poiret, ma un tubino che inguainava le braccia, dalla spalla al polso, come una calza».

Imitazioni «Sì, è vero, in tanti copiano i miei modelli. Ma non me ne preoccupo affatto, né mi lamento per questo. Perché mai dovrei impedirlo? Pensate solo a quanta pubblicità mi regalano [...]. Alle donne che vogliono vestire non interessano certo le imitazioni. E se non ci fossero queste mie assistenti non autorizzate, mesdames le copiste, dove andrebbero tutte quelle signore che vogliono i miei vestiti ma che non posso accontentare? (Coco Chanel).

Chanel N° 5 Risale al 1921 il lancio del profumo Chanel N° 5, creato dal chimico di Grasse Ernest Beaux, prima fragranza artificiale e moderna definita “astratta” in quanto non vi predominava un’essenza naturale, ma era realizzata su base chimica. Secondo quanto racconta Diana Vreeland nella sua autobiografia, il nome N° 5 è stato puramente casuale: «Chanel non sapeva come chiamarlo. A rue Cambon erano arrivate parecchie
essenze da scegliere. Coco chiamò uno dei suoi grandi amici russi, un
grande aristocratico, un uomo di grande sensibilità e gli chiese: “Aiutami
a scegliere [...] ci sono dieci fazzoletti [...] versa una goccia di campioni di
profumo su ogni fazzoletto, e quando l’alcol è evaporato fammelo sapere”.
Così fece, quindi Coco prese a turno ogni fazzoletto. Il primo: “C’est impossible!”. Il secondo: “Orrible!”. Il terzo: “Pas encore.” Il quarto “Non.”. Poi all’improvviso: “Ça va, ça va!”».

I lavoranti della maison Chanel «Nella seconda metà degli anni trenta, la maison Chanel, al culmine della fama, contava quasi 4.000 lavoranti e vendeva circa 28.000 modelli l’anno. Allo scoppio della guerra Chanel chiuse la maison per riaprirla soltanto nel 19546, all’età di 71 anni, lanciando, in piena epoca “new look”7, i celeberrimi tailleur dalla linea smilza che vennero presto adottati da tutto il jet set internazionale: da Jacqueline Kennedy a Diana Vreeland, da Grace di Monaco a Lauren Bacall».

Sane voci italiane Il Commentario Dizionario Italiano della Moda curato da Cesare Meano in cui, conformemente alla campagna di italianizzazione patrocinata dal fascismo in nome delle “sane voci italiane”, il linguaggio di “moda” venne epurato da tutti i termini stranieri ancora in uso.
Fu così che il tailleur diventò “completo a giacca”, il golf “panciotto
a maglia”, i pantaloni “calzoni”, i pois “pallini”, le paillettes “pagliuzze”, lo smoking “giacchetta da sera”, il satin “raso”, la silhouette “figurina”, i volant “volanti” ecc.

La scarpa a zeppa di Ferragamo La prima cliente cui Salvatore Ferragamo presentò il suo prototipo di scarpa ortopedica fu la duchessa Visconti di Modrone, la quale inorridì di fronte a quella visione, ma Ferragamo non si perse d’animo e le disse: «Lasci che gliene faccia un paio. Le calzerà una sola volta, dopodiché, se non le avranno fatto i complimenti me le restituirà e non ne parleremo più». Fu così che la duchessa si lasciò convincere e le indossò una domenica mattina per andare a messa. «Il giorno dopo all’apertura del negozio vennero da me, una dopo l’altra, le amiche della duchessa. In poche settimane le scarpe a zeppa divennero il mio modello più popolare. Non c’era donna che non ne elogiasse la comodità. Il sughero dava l’impressione di camminare sopra cuscini» (Salvatore Ferragamo).

Calli e regine «Mussolini venne da me con calli e duroni e così pure la sua amica Claretta Petacci. Venne persino Eva Braun, l’amica di Hitler, circondata da guardie naziste. Una mattina quattro regine si trovarono contemporaneamente nel mio salone: le sovrane di Jugoslavia, di Grecia, di Spagna e dei Belgi. La Maharani di Cooch Behar mi ordinò cento paia di scarpe» (Ferragao).

Sandalo invisibile Tra i modelli firmati Ferragamo, oltre alla zeppa di sughero, il sandalo “invisibile” con tomaia di nylon trasparente.

Christian Dior «Il 12 febbraio 1947 Christian Dior presentò Corolle, la sua prima collezione, contraddistinta da una linea romantica, opulenta e sinuosa che, in qualche modo, rappresentava la felicità ritrovata dopo gli anni bui della guerra. Il giorno dopo Carmel Snow, caporedattrice di “Harper’s Bazaar”, gli inviò un telegramma con su scritto: “Dear Christian, your dresses have such a new look”. Da allora la nuova silhouette lanciata da Dior, che avrebbe influenzato la moda internazionale fino alla metà degli anni cinquanta, acquisì il nome di new look. “Con quel nome magico che include Dio e l’oro”, come lo definì Jean Cocteau, Dior è stato uno dei maggiori protagonisti della moda del Novecento».

Maison Dior Nel 1947 la maison Dior disponeva di 3 atelier e 60 operaie, nel 1954 dava lavoro a più di 1.000 persone suddivise in 28 atelier. In quello stesso anno Dior da solo deteneva il 50% delle esportazioni totali francesi di moda.

Balenciaga 1 «Balenciaga è il più grande sarto che sia mai esistito [...]. Se una donna entrava in una stanza indossando un suo vestito non si vedeva più nessun’altra» (Diana Vreeland).

Balenciaga 2 «Nato nel 1895 a Getaria in Spagna, Cristobal Balenciaga iniziò a interessarsi alla moda, apprendendo i primi rudimenti dalla madre sarta. A soli 12 anni Balenciaga cominciò a lavorare come apprendista in una sartoria, finché nel 1913 non fu assunto nel reparto di sartoria per signora del noto Magazin du Louvre di San Sebastián, famosa località
balneare frequentata anche dalla famiglia reale spagnola. Nel 1919, sempre
a San Sebastián, aprì la sua prima sartoria e presto divenne così famoso
per la sua straordinaria abilità nel riprodurre modelli francesi da
contare tra le sue clienti rappresentanti della famiglia reale spagnola e
numerose nobildonne».

Zuffe Nel 1937, affiancato da Nicolas Bizcarrondo e dall’amico e collaboratore Vladzio d’Attainville, i suoi futuri soci, Balenciaga inaugurò a Parigi una maison con il suo nome. Aveva ormai 42 anni e una lunga esperienza. Era arrivato il momento di iniziare a creare abiti che non fossero più riproduzioni di moda francese ma creazioni originali. Dopo le prime collezioni, passate quasi inosservate, il grande successo arrivò nel 1939 quando, oltre ai numerosi ordini da parte di department stores americani come Saks Fifth Avenue e Bloomingdale’s, sul “Daily Express” si legge: «Responsabili delle ordinazioni e giornalisti si azzuffano come
per una partita di calcio, per vedere la collezione del giovane spagnolo
che sta rivoluzionando la moda”».

L’austerità di Balenciaga I défilé di Balenciaga, al contrario di
quelli di Dior, erano contraddistinti da una grande austerità: «“Durante
le sue sfilate c’era l’atmosfera di un convento” raccontò Maria Pezzi
“non si poteva parlare ma neppure tossire e per nessuna ragione al mondo, fosse anche scoppiata la guerra mondiale, si poteva lasciare la sala prima della fine della collezione”».

Le sorelle Fontana «Le Sorelle Fontana – Zoe (1911-1978), Micol (1913) e Giovanna (1915-2004) – nacquero a Traversetolo, un piccolo paese in provincia di Parma. Una passione, quella per la moda, nata “durante l’infanzia”
racconta Micol “sin da piccole, io e le mie sorelle sapevamo tenere in
mano ago e forbici. Ce lo aveva insegnato, nella sua piccola sartoria di
Traversetolo, nostra madre Amabile. Che, a sua volta, aveva imparato
il mestiere dalla nonna” (testimonianza raccolta il 16 marzo 2011)».

Inventare la moda «Dopo un periodo di apprendistato, nel 1943 le sorelle Fontana si misero in proprio e aprirono una piccola sartoria in via Liguria. Lì, come da tradizione, replicavano, con qualche piccola modifica, i modelli delle più famose case di moda francesi. Per poco però, perché presto il loro carattere indomito e coraggioso le portò a fare moda italiana. “Dove sta scritto” si chiedeva Micol “che soltanto Chanel, Patou, Mainbocher e Schiaparelli sanno inventare la moda?”. Così, pian piano, iniziarono a creare abiti di testa loro. Nel 1950, le lavoranti dell’atelier erano ormai un centinaio». «Nel 1953 le sorelle Fontana vennero incaricate di realizzare gli abiti di Ava Gardner per La contessa scalza. Negli anni sessanta, su richiesta dei buyer statunitensi, inaugurarono una linea di prêt-à-porter a cui si aggiunsero poi
linee di pelletteria, ombrelli, foulard, bigiotteria e biancheria da bagno
e da tavola fino al profumo Micol lanciato nel 1991».

Capucci Roberto Capucci, nato a Roma nel 1930 in una famiglia della buona borghesia, dopo gli studi artistici, incoraggiato dalla giornalista Maria Foschini, nel 1950 aprì in via Sistina il suo primo atelier. Nel 1962 aprì un secondo atelier a Parigi al n. 4 di rue Cambon. «A quell’epoca» ha ricordato «abitavo al Ritz, lo
stesso albergo dove viveva mademoiselle Chanel. Io avevo una piccola
suite, lei un grande appartamento. La incontravo la mattina, piatta nei
suoi agili tailleur, la sigaretta perennemente in bocca, grondante di gioielli».

Le cappuccine Dagli anni ottanta le creazioni di Capucci, «sempre più scultoree e sperimentali, con forme inusuali fatte di sovrapposizioni, di petali,
di ventagli, di trionfi barocchi, sembrano prescindere dal tempo e
dalle mode, pur essendo legate alla modernità. Tra le sue clienti, soprannominate “le capuccine”, oltre a numerose nobildonne anche attrici come la Mangano, Gloria Swanson, Esther Williams, Marilyn Monroe, Valentina Cortese e il Nobel Rita Levi Montalcini».

Il sarto-marchese Emilio Pucci, marchese di Barsento, nel 1947, mentre era in vacanza a Zermatt, venne notato dalla fotografa di “Harper’s Bazaar” Toni Frissell, che ammirò l’eleganza del completo da sci di una sua amica. «Presto scoprì che era stato lo stesso marchese a ideare la mise. Ne rimase entusiasta. Tornata negli Stati Uniti ne parlò con la fashion editor del giornale, Diana Vreeland, che si rese subito conto del talento del giovane italiano e le commissionò un servizio su di lui e sulle sue creazioni. Fu così che il 14 dicembre 1948, sulle pagine di “Harper’s Bazaar”, comparve un articolo a lui dedicato dal titolo An Italian Skier Designs, che così esordiva: «I visitatori delle Alpi riferiscono che le donne più chic sulle piste di sci sono le italiane. Gli abiti da sci su queste pagine sono disegnati da Emilio, lui stesso sciatore appassionato e provetto e sono stati fotografati a Zermatt”. Il successo fu quasi istantaneo. Immediatamente department store americani, come Lord & Taylor, Neiman Marcus e Saks, lo sommersero di ordinazioni. Aristocratico, ironico, con un’eleganza innata, il sarto-marchese ammaliava gli americani. Nato a Napoli nel 1914, dopo essersi laureato in Scienze politiche, nel 1938 si arruolò come ufficiale nell’aviazione italiana durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1949, mentre era in vacanza a Capri, fece realizzare alcuni abiti sportivi che riscossero perfino i complimenti di Mademoiselle Chanel. Sull’onda di quel successo Emilio Pucci decise di aprire la boutique caprese La Canzone del Mare, a Marina Piccola, che divenne nel giro di pochi mesi tappa obbligata per tutto il jet set di passaggio nell’isola: da Greta Garbo a Marilyn Monroe, fino a Jacqueline Kennedy.

La lycra di Pucci «Pucci brevettò i suoi primi abiti in sottilissimo jersey di seta e cominciò a fare largo uso di fibre sintetiche come il poliestere e la lycra. I coloratissimi jersey di Emilio Pucci potevano essere stipati in valigia, per uscirne come nuovi dopo un lungo viaggio».

Il total look di Pucci Pucci è stato il primo creatore di moda italiano a cimentarsi con il total look. Nel 1961, infatti, strinse un accordo di collaborazione con la casa di porcellane Rosenthal, firmò poi linee di calze, di cravatte, di borse, di lingerie, di moda maschile, di uniformi per le hostess delle
linee aeree Braniff e Quantas, degli interni dell’automobile Lincoln
Continental, di tappeti per Dandolo Argentina ecc.

Le borse di Roberta di Camerino Tra le borse più famose di Roberta di Camerino, la Bagonghi, amata da Grace di Monaco, Elsa Maxwell ed Eleonora Rossi Drago, così battezzata dalla sua creatrice «per la sua forma piccola e panciuta e per quella grossa maniglia che per l’appunto mi ricordava l’omonimo piccolo, grande personaggio dell’immaginario circense». Alla Bagonghi seguirono molti altri modelli, come ad esempio la Brigitte, un bauletto contraddistinto da un borsellino in metallo dorato applicato all’esterno, che rappresentava a sua volta l’accessorio dell’accessorio. Grazie a lei la borsa si sarebbe imposta come accessorio di moda. «Il merito della rivalutazione della borsetta» scrisse nel 1959 Camilla Cederna «rendendola fastosa, originale, diversa dal monotono cliché sella-cucitura-rigidezza-tracolla, è, lo sanno ormai tutti, della signora Giuliana Camerino, che accumula premi, Oscar, riconoscimenti per aver creato e continuato a creare le più belle borse del mondo».

Valentino 1 «“Per la seconda volta nella storia le donne fremono per un giovane uomo di nome Valentino. Questa volta non è un attore, idolo delle platee cinematografiche, ma un designer italiano che vive a Roma”. Questo scrisse nel 1964 Eugenia Sheppard, e si riferiva a Valentino Clemente Garavani, couturier e stilista italiano nato a Voghera nel 1932».

Valentino 2 Nel 1959 Valentino aprì il suo primo atelier a Roma, in via Condotti. In quello stesso anno presentò Ibis, la sua prima collezione, che passò
pressoché inosservata. Di lì a poco incontrò Giancarlo Giammetti, che
sarebbe diventato il suo socio, nonché amministratore delegato della
maison e, nel 1960, trasferì la sua sartoria in via Gregoriana. Il debutto
di fronte ai buyer e alla stampa internazionale avvenne il 19 luglio
1962, quando partecipò alle sfilate fiorentine di Palazzo Pitti. In quanto
giovane leva della moda italiana gli venne concesso di presentare i
suoi modelli soltanto l’ultimo giorno all’ultima ora. Ciò nonostante,
al termine della sfilata, «i buyers americani si strappavano i miei vestiti
dalle mani» (Valentino in Gastel, 1995, p. 283).

La V di Valentino Nel 1967 comparve per la prima volta il logo contraddistinto dalla “V” apposto su abiti e accessori come dettaglio decorativo (collezione primavera- estate 1968).

Le clienti di Valentino Tra le clienti più affezionate di Valentino: Gloria Guinness, Elizabeth Taylor, Farah Diba, Marella Agnelli, Sophia Loren, Sharon Stone, Gwyneth Paltrow e Jacqueline Kennedy. Nel 1968 Jacqueline Kennedy scelse di indossare un abito di Valentino il giorno delle sue nozze con Aristotele Onassis.

Rosso Valentino Grande leitmotiv delle creazioni dello stilista, la passione per la particolare sfumatura di rosso che ha preso il suo nome. «Cominciai ad amare questo colore [...] a Barcellona durante una serata all’opera; c’erano solo costumi rossi in scena, le donne nei palchi avevano per lo più abiti rossi e si sporgevano come gerani alle balconate, e le poltrone e i tendaggi erano rossi [...]. Capii che non c’era colore più bello dopo il nero e dopo il bianco» (Valentino).

Numeri 1 Alle soglie degli anni sessanta in Italia circolavano 2 milioni di automobili, c’erano 400.000 lavatrici e 1.600.000 frigoriferi. Le nascite erano
aumentate sensibilmente, il tasso di scolarizzazione innalzato. La moda
stava ormai diventando un fenomeno sempre più massiccio: si pensi che
i negozi di moda per uomo, donna e bambino, mentre nel 1951 erano circa
2.800, nell’arco di un decennio si raddoppiarono giungendo a essere
5.000 nel 1961. I grandi magazzini con reparti di abbigliamento passarono
da 163 a 289. In un opuscolo stampato nel 1985 a cura dell’Associazione italiana degli industriali dell’abbigliamento si legge che, mentre nel 1955 la quota di mercato soddisfatta dall’abbigliamento pronto era del 22%, nel 1965 la percentuale era salita al 56%. Nel luglio 1959, a sottolineare la rapidità della crescita dell’industria italiana dell’abbigliamento, su un articolo pubblicato
dalla “Nazione” si legge che la vendita delle calzature femminili era salita
da 505 milioni di lire del 1950 a 28 miliardi del 1958, mentre quella dei tessuti
era passata dagli 82 ai 250 miliardi.

Donna-bambina Scomparsa la maggiorata, il prototipo di bellezza degli anni sessanta era quello della donna-bambina, una tipologia insolita e dicotomica che oscillava tra una donna grissino vagamente androgina alla Twiggy e un’adolescente maliziosa alla Brigitte Bardot. Il nuovo minimo comune denominatore divenne la giovinezza. Yves Saint Laurent: «Prima le figlie volevano somigliare alle madri, ora è il contrario [...] Essere giovani è più importante che appartenere a una casta: la haute couture, con la sua grande tradizione di raffinatezza, con i suoi modelli riservati a signore adulte e arrivate, è stata screditata da questa nuova esigenza dell’individualismo moderno. Sembrare giovani».

Paco Rabanne, il metallurgico Figlio della capocucitrice della filiale spagnola
di San Sebastián della maison Balenciaga, Paco Rabanne, dopo essersi
dedicato per diversi anni alla realizzazione di accessori e bijoux
per celebri case di moda come Balenciaga e Givenchy, creò una griffe
con il suo nome. Il 1° febbraio 1966 lo stilista spagnolo presentò la sua
prima collezione ufficiale dal titolo 12 robes importables en matériaux
contemporains. Fu uno scandalo. Le sue creazioni, realizzate con materiali inusuali come alluminio, plastica, plexiglass, carta e fibre ottiche,
scatenarono una quantità di critiche. «Questo non è un sarto ma un
metallurgico!», esclamò disgustata Coco Chanel.

Yves Saint Laurent «“Il mio più grande rimpianto” si crucciava Yves Saint Laurent “è quello di non aver inventato i jeans”. In compenso, comprese l’importanza dello stile sopra la moda. Sostituì la distinzione con la giovinezza. Sublimò il cross-dressing. Coniugò, più di ogni altro, la haute couture con lo street-style. L’arte con la moda. Fece uscire le donne dai castelli e dagli harem, dai sobborghi e dalle periferie e, in un batter d’ali, sedusse il mondo».

Minigonna Nel 1961, l’anno del debutto dei Beatles, Mary Quant (1934) – che nel 1955 insieme al marito Alexander Plunket-Greene e al socio Archie
McNair aveva aperto in King’s Road, a Chelsea, la sua prima boutique,
Bazaar – iniziò a proporre la minigonna. Nel giro di dieci anni divenne
la proprietaria di una sorta di impero della moda giovane nonché protagonista
di quella che venne definita la “Chelsea revolution”.

La boutique Fiorucci La boutique Fiorucci, aperta nel 1967 da Elio
Fiorucci (1935). «Quest’ultimo aveva iniziato la sua attività lavorando
presso i tre negozi di pantofole paterni a Milano. Nel 1962 riscosse un
gran successo lanciando sul mercato galosce in plastica colorata. Nel 1965,
durante un soggiorno a Londra, venne folgorato dall’anti-moda inglese:
“Quel casino [...]”, ha ricordato Elio Fiorucci “testimoniava un rapporto
nuovo, libero con il problema del vestire [...] la moda non scendeva
più dall’alto, come lo Spirito Santo, ma dal basso. Ho soltanto un merito.
Averlo capito”. Di lì a poco, nel 1967, decise di aprire un grande negozio dedicato alla moda giovane a Milano. I costi erano bassissimi, la qualità elevata, l’offerta molto varia. Il successo fu così grande che, dopo qualche anno, vennero aperte succursali a Londra (1975), a New York (1976), a Los Angeles (1979). In poco tempo il “fioruccismo” divenne un fenomeno di costume»

Angioletti, jeans e minigonne Insieme alle t-shirt stampate con gli angioletti vittoriani e alle minigonne di tulle, i jeans aderentissimi sono una sorta di tratto distin-tivo del marchio Fiorucci.

Numeri 2 «Per rendersi conto di quanto si fossero moltiplicati gli affari della moda basta pensare che, se nel 1971 i negozi di abbigliamento in Italia erano 24.000, dieci anni dopo erano diventati 82.000, circa tre volte di più. Durante le collezioni del 1979, ha scritto Pia Soli, «arrivarono a Milano 30 mila compratori di cinque continenti in un carosello di voli charter e di treni speciali. Se ne è dovuto occupare perfino un sociologo come Francesco Alberoni: “Tra le secche della crisi e dell’inflazione, c’è un’unica barca che naviga spedita. Quella della moda. E le cifre lo testimoniano: oltre 6.000 miliardi di saldi attivi nel ’78”».

Numeri 3 Con i suoi 60 miliardi di lire di fatturato il made in Italy trionfava ed
era, alla fine degli anni ottanta, la seconda voce nella bilancia dei nostri
pagamenti con un saldo attivo di 12.000 miliardi.

La giacca di Armani «Il mio lavoro è nato intorno alla giacca. È stato il punto di partenza per tutto ciò che ho fatto in seguito. La mia piccola cruciale scoperta consiste nell’aver concepito un indumento che cade con un’inattesa naturalezza.
Ho sperimentato nuove tecniche, come rimuovere l’imbottitura e la controfodera. Ho mutato la disposizione dei bottoni e modificato radicalmente
le proporzioni. Ciò che prima era considerato un difetto è diventato la
base per una nuova forma, una nuova giacca» (Armani)

Armani alla Rinascente Nato a Piacenza nel 1934, Giorgio Armani dopo gli studi secondari si iscrisse a Milano alla facoltà di Medicina. Nel 1957, interrotta l’università, iniziò a lavorare alla Rinascente prima come vetrinista e, in seguito, come buyer: «Non ho fatto il couturier. Ho cominciato a masticare moda quando ho accettato di lavorare per la Rinascente come consulente [...]. Non avevo il fuoco sacro della moda».

The Untouchables «C’è stato un unico film The Untouchables (Gli intoccabili, 1987) in cui ho accettato di creare gli abiti appositamente, ma questa per me era una splendida occasione, per sperimentare, per fare della ricerca utile al mio lavoro. Ho interpretato il modo di vestire di quell’epoca secondo la mia visione, in modo immaginario e realistico insieme. Con Gli intoccabili ho avuto modo di portare verso punte estreme certe tendenze del mio stile. Infatti gli anni venti e trenta, in cui è ambientato quest’ultimo film,
sono un riferimento ricorrente del suo stile che si riflette anche nelle
campagne pubblicitarie, molto spesso in bianco e nero» 8Armani)

Gianni Versace. Gianni Versace, lo stilista calabrese assassinato a Miami nel 1997. Nato nel 1946 a Reggio Calabria, si avvicinò alla moda da bambino. Sua madre Franca aveva una delle sartorie più importanti della città ed era specializzata nella riproduzione di modelli di moda francese. Nella sartoria materna Versace apprese i rudimenti del mestiere. «Io sono un sarto» avrebbe poi dichiarato, «quando sono arrivato a Milano da Reggio Calabria tutto quello che avevo imparato da mia madre l’ho dovuto dimenticare perché c’erano altri termini, altre tecnologie. Poi man mano ho scoperto che il suo insegnamento era ancora valido. Ho scoperto che il vero artista è l’artigiano. Mi fanno ridere certi stilisti che dicono di non essere sarti. Certo, visti i loro abiti, salta subito all’occhio. Secondo me, invece, il vero artista è quello che realizza le cose con le sue mani. Uno stilista quindi deve essere un sarto».

Top model «Con la sua schiera di statuarie, bellissime modelle come Claudia Schiffer e Linda Evangelista, Cindy Crawford e Naomi Campbell, Gianni Versace fu anche il massimo sostenitore del fenomeno delle top model, simbolo
della fine degli anni ottanta e dei primi anni novanta».

Gianfranco Ferré «“Gianfranco Ferré è riuscito a compiere un miracolo, lavorare in assenza di gravità. Quando si impadronisce di un tessuto, questo peso massimo della moda rivela un tocco lieve da ricamatore”, ha scritto
Janie Samet, nel 1993, su “Le Figaro”. Nato nel 1944 a Legnano, dopo essersi laureato in architettura al Politecnico di Milano, iniziò a occuparsi di moda nel 1969, creando accessori e bijoux. “La mia avventura nel mondo della moda ha preso avvio per caso, più per il piacere di manipolare materiali e giungere a
“produrre” qualcosa di originale e rispondere al mio gusto, che non per
la convinzione di calarmi nel ruolo del creatore di moda. E forse non
è un caso che questa avventura abbia avuto inizio proprio dal bijoux”».

Camicia bianca Tra i leitmotiv di Ferré, oltre alla purezza delle linee e all’amore per l’Oriente, c’è la camicia bianca che lo stilista ha trasformato, da indumento base del guardaroba maschile, a strumento di seduzione femminile. «Mi piace pensare» ripeteva sempre lo stilista «che la camicia bianca sia un termine di uso universale. Che ognuno, però, pronuncia come vuole»

Dolce & Gabbana Tra le clienti più note di Dolce & Gabbana attrici come
Nicole Kidman e Liv Tyler e pop star come Kylie Minogue e Madonna.
Per quest’ultima, hanno realizzato nel 1993 i 1.500 costumi del Girlie
Show e nel 2000 i costumi e le scenografie del Roseland Ballroom
di New York.

Gucci « Il primo laboratorio-bottega Gucci è stato fondato a Firenze da Guccio Gucci (1881-1953). Dopo aver lavorato a Londra come lift-boy presso l’Hotel Savoy, Guccio Gucci svolse un periodo di apprendistato a Milano presso la ditta Franzi30; tornato a Firenze, nel 1921 aprì la sua prima bottega di articoli da viaggio e da selleria in via della Vigna Nuova. Nel 1938 inaugurò una succursale in via Condotti a Roma. Durante gli anni dell’autarchia, di fronte alla
carenza di materie prime, Gucci si distinse per l’utilizzo di materiali fino ad allora considerati inconsueti nell’ambito della pelletteria come la canapa, la iuta e il bambù. I prodotti della griffe, dalla borsa con il manico di bambù nata nel 1947
al mocassino con il morsetto (1952-53), al foulard Flora31, disegnato nel
1966 da Vittorio Accornero per Grace Kelly, fino alla borsa Jackie O’,
creata nei primi anni sessanta e resa celebre da Jacqueline Kennedy32,
da cui ha poi preso il nome, in breve tempo divennero classici intramontabili.
Tra i tratti distintivi del marchio si ricordano i nastri in lana o cotone ispirati ai sottopancia della sella nei toni del rosso e del verde o del blu e del rosso, e il logo con la doppia G».