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 2013  gennaio 09 Mercoledì calendario

«Il 75 per cento delle tasse pagate dai lombardi resti in Lombardia». Che cosa significa in concreto? E cosa comporterebbe se altre regioni del Nord pretendessero la stessa cosa? Gli esperti di finanza pubblica sono concordi: così si smonta l’Italia come un puzzle

«Il 75 per cento delle tasse pagate dai lombardi resti in Lombardia». Che cosa significa in concreto? E cosa comporterebbe se altre regioni del Nord pretendessero la stessa cosa? Gli esperti di finanza pubblica sono concordi: così si smonta l’Italia come un puzzle. Secessione. Ma gli amministratori leghisti e pidiellini del Nord non sentono ragioni. «Le Regioni a statuto speciale come il Trentino Alto Adige lo fanno già. Ora tocca anche a noi», rivendica tra gli altri Roberto Ciambetti, assessore al Bilancio del Veneto. Ma andiamo con ordine, calcolatrice alla mano. Nel 2010, ultimo anno disponibile, gli abitanti del Veneto hanno versato circa 73 miliardi in tasse e imposte di ogni tipo (considerando sia quello che è andato allo Stato che quanto è finito nelle casse degli enti locali). Sul territorio sono tornati sotto forma di servizi ai cittadini circa 52 miliardi. «Vede che i conti non quadrano?», si infervora il nostro assessore al Bilancio. «In sostanza solo il 72% di quello che abbiamo versato in tasse ha ripreso la via del Veneto. Noi vogliamo almeno il 75%, come i lombardi. Che poi, in soldoni, secondo i miei conti, corrisponde a 3 miliardi in più ogni anno. Le assicuro che saprei bene che cosa farci». Il pezzo da 90, in materia fiscale, resta la Lombardia. La «locomotiva» del Paese versa ogni anno 173 miliardi in tasse e ne riceve indietro 114: il 66%. Per arrivare al 75% dovrebbe riportarne a casa non 114 ma 130. Ben 16 miliardi in più l’anno. Nessun’altra regione in Italia — applicando il parametro del 75% — potrebbe pretendere altrettanto. Per dire, il Piemonte già oggi mette le mani sull’86% di quanto pagato (proprio come il Lazio). Qualcosa potrebbe chiedere l’Emilia Romagna, dove arriva il 73%, pari a 53,7 miliardi l’anno su 73,6. Tra le Regioni in cui il rapporto tra tasse versate e spesa pubblica in contraccambio è più vantaggioso ci sono la Sicilia, che può spendere il 120,1 per cento di ogni euro consegnato all’erario e la Valle D’Aosta, con il 122,6%. Le Regioni possono contare su una certa libertà d’azione in campo fiscale dal 2001. In sostanza da quando è stato rivisto il titolo V della Costituzione. Restano nei territori le entrate dell’Irap, l’addizionale regionale Irpef (presente in Lombardia, per esempio, ma non in Veneto), gli introiti del bollo auto, una quota delle accise sui carburanti. «Nel caso del Veneto, che ha un bilancio da circa 15 miliardi, tutto questo incide per poco meno di un miliardo», esemplifica Ciambetti. Ma su quali imposte e tributi dovrebbe puntare un federalismo fiscale spinto? «Guardi, semplicemente tutto questo discorso non ha senso», prende le distanze Tommaso Di Tanno, docente di Diritto Tributario a Siena ed esperto di politica fiscale. «Facciamo un esempio — continua Di Tanno —. Le entrate di un’azienda che ha sede a Milano sono il risultato di prodotti venduti in tutta Italia. Anche al Sud. Senza contare che gli stabilimenti manifatturieri della nostra impresa potrebbe essere anche in altre Regioni o addirittura all’estero. Insomma, non diciamo bestialità». E l’Imu? «Ecco, forse potrebbe avere un senso che le imposte sulla casa restino sul territorio. Perché in questo caso si tassa un bene che davvero appartiene a quella città o a quella Regione». Di Tanno ricorda quando la Sicilia, dopo la riforma del titolo V della Costituzione, si inventò il cosiddetto «tubatico», una tassa sul petrolio in arrivo dal Nord Africa che passava dall’isola per raggiungere il continente. Poi, però, l’imposta venne contestata dall’Unione Europea. Secondo il professore, inoltre, basta guardare come si comportano altri Stati federali, gli Usa in testa. «Negli Stati Uniti c’è una Federal income tax, la tassazione federale, e una State income tax, tassazione del singolo Stato. Quest’ultima di fatto impone solo piccoli correttivi che servono, per esempio, da incentivo o deterrente per l’insediamento di nuove attività produttive». Assolutamente contrario, senza se e senza ma, anche Paolo Parisi, docente di diritto tributario alla Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze «Ezio Vanoni» di Roma. «Beh, è semplice, non nascondiamoci dietro un dito, qui non si sta parlando di federalismo ma di secessione — taglia corto Parisi —. È facile da capire: chi vuole gestirsi la quasi totalità delle entrate tributarie allora deve rendersi anche autonomo nell’organizzazione dei servizi. Di fatto crea una realtà statuale a sé». Di fronte a questa obiezione la Lega porta a esempio le Regioni a Statuto speciale, il Trentino Alto Adige, per esempio, dove la stragrande maggioranza delle entrate fiscali resta sul territorio. «Si tratta di Regioni speciali, appunto — conclude Parisi —. Se questa diventasse la norma, allora tanto vale che ogni Regione vada per la sua strada». Rita Querzé