Stefano Lorenzetto, il Giornale 6/1/2013, 6 gennaio 2013
LORENZETTO INTERVISTA LUCA BARCELLONA
(calligrafo) -
Il Giornale, domenica 6 gennaio 2013
Scrive meglio di qualsiasi giornalista, romanziere o saggista, anzi meglio di chiunque altro abbiate conosciuto in vita vostra, ve lo do per certo. Vederlo all’opera è uno spettacolo: foglio, calamaio e penna d’oca, «ho imparato da solo a tagliarne la punta, ma le penne di tacchino o di pavone vanno altrettanto bene, se non meglio». Di questo campa Luca Barcellona, 34 anni, milanese con studio affacciato sul Naviglio Grande: di calligrafia. E perciò, secondo l’etimologia greca, di kállos, bellezza, e graphía, scrittura. Un mestiere che pochi riescono a capire. «Ho provato a farmi mettere “calligrafo” sulla carta d’identità, ma l’impiegato dell’ufficio anagrafe della Zona 6 mi ha informato che è una professione inesistente: pretendeva che scegliessi fra “grafologo” e “callista”».
Ha cominciato come writer, o graffitista che dir si voglia, insomma imbrattando i muri della città. Adesso la sua calligrafia, fatta di caratteri che inventa sul momento e che spaziano dall’onciale al beneventano cassinese, dal gotico al corsivo inglese, fino al lettering editoriale pubblicitario e ai logotipi, è richiestissima da celebri griffe della moda (Carhartt, Dolce & Gabbana, Nike, Zoo York, Fila), da grandi multinazionali (Sony, Universal, Eni, Montblanc), da case automobilistiche (Volvo, Alfa Romeo, Seat), da editori (Arnoldo Mondadori). Ha scritto a mano titoli di film (Io sono l’amore di Luca Guadagnino, giudicati dal New York Times tra i migliori del 2011, e Pauline Détective di Marc Fitoussi), di testate giornalistiche (XL di Repubblica), di Cd musicali (Royale rockers dei Casino Royale, L’amore è femmina di Nina Zilli, Piano calling di Cesare Picco), di libri (Rivoluzione n. 9 di Silvio Muccino e Carla Vangelista). Ha accompagnato con effetti visivi animati, ispirati a vecchie locandine, lo spettacolo C’era una volta a Roma, messo in scena all’Auditorium Parco della Musica della capitale, basato sulle colonne sonore del cinema italiano fra gli anni Sessanta e Settanta. Ha persino creato per Gold una sua linea d’abbigliamento stampando su magliette e felpe le opere grafiche che gli erano state rifiutate. Ma non disdegna i lavori di calligrafia più umili, tipo onorificenze e diplomi, anche se di norma gli affidano solo quelli adeguati al suo rango, come la gouache su carta di cotone consegnata alla regina Rania di Giordania dall’Istituto universitario di studi superiori di Pavia, con tanto di firma dell’autore a margine.
Da qualche giorno l’arte di Barcellona ha trovato compendio in un lussuoso libro edito da Lazy Dog e stampato da Trifolio, Take your pleasure seriously. «Prendi il tuo piacere seriamente» è una frase dei designer Charles e Ray Eames, marito e moglie, autori della celebre poltrona con pouf creata nel 1956 per un amico regista con problemi ortopedici: «È diventata il mio motto. La scrittura è una passione e mai avrei pensato che potesse trasformarsi in un lavoro». Per una singolare coincidenza, il volume ha visto la luce a Verona, la città in cui è custodita, presso la Biblioteca Capitolare, la pergamena del 700 dopo Cristo su cui fu vergato l’Indovinello veronese, considerato il documento che segna la nascita della lingua italiana: «Se pareba boves, alba pratalia araba et albo versorio teneba et negro semen seminaba», spingeva davanti a sé i buoi, arava i bianchi prati e teneva un bianco aratro e seminava un nero seme. Dove i buoi sono le due dita dell’amanuense, i bianchi prati sono le pagine del libro prima d’essere scritte, il bianco aratro è la penna d’oca e il nero seme è l’inchiostro.
Take your pleasure seriously si apre con i ringraziamenti a Hermann Zapf, il calligrafo e tipografo che ha influenzato la formazione di Barcellona. Accanto è riprodotta un’affettuosa lettera inviata dall’anziano maestro al giovane allievo. Zapf è una leggenda vivente. Ha 94 anni. Abita a Darmstadt, vicino a Francoforte, con la moglie Gudrun, coetanea, anche lei calligrafa. Lavorano ancora entrambi e si divertono un mondo. L’artista tedesco ha creato molti caratteri di Windows e Mac, come il Palatino e l’Optima, e anche il font che porta il suo cognome, fatto di quadratini, triangoli, freccette, asterischi e altri simboli d’uso comune nei cinque continenti.
Ha avuto modo di conoscere Zapf?
«Sì, sono andato a trovarlo in Germania. Lo studio di casa era stato allagato da un nubifragio. Centinaia di libri e di pezzi unici fatti a mano galleggiavano nell’acqua. Ma Zapf non era per nulla preoccupato. Mi ha detto: “Sono nato a Norimberga, che cosa vuole che sia un temporale rispetto al bombardamento del 1944?”».
Ma la passione per la scrittura sarà precedente all’incontro con Zapf.
«Sì. Fin da bambino mia madre mi aveva abituato a riconoscere per gioco le insegne dei negozi. Ho ancora impresso nella mente il carattere Estro di Aldo Novarese che si usava negli spaghetti western e per scrivere “Fine” nei cartoni animati. Dopo gli studi di grafica pubblicitaria al liceo Caterina da Siena, ho lavorato come impaginatore in una rivista di architettura, L’Arca. Mi è servito per capire che cosa non volevo fare nella vita».
Che cosa?
«Usare il computer. Sono finito a fare il commesso in vari negozi e intanto frequentavo i corsi dell’Associazione calligrafica italiana, dove oggi insegno, e scrivevo inviti a mano per Tom Ford, Jill Sander, Roberto Cavalli, Peuterey, Vertu, 1.000 o 2.000 indirizzi sulle buste. Ogni tanto mi toccava inventare scuse fantasiose per non scoppiare: ho ancora dei parenti stretti che sono morti almeno una volta al mese... Nel dicembre 2005 ho deciso di licenziarmi. Un salto nel buio. Il mese dopo mi è stato chiesto l’headline a mano per la campagna pubblicitaria di Stone Island. In tre giorni di lavoro ho preso lo stipendio di tre mesi. Vedevo quella frase tracciata di mio pugno, “Fratelli, bastardi, gentiluomini”, sui cartelloni stradali e nei giornali. Mi pareva di sognare».
S’era allenato come imbrattamuri.
«Alla scuola grafica era pieno di writer. A 14 anni disegnai il mio primo tag, che è la firma del graffitista. Scelsi Been, poi trasformato in Bean».
Fagiolo.
«Non sapevo manco che volesse dire, ero attratto solo dalla forma delle lettere. A casa preparavo il bozzetto del pezzo, così lo chiamano i writer, e poi di notte andavo a realizzarlo. Nei depositi dei treni dovevi arrivare non prima delle 2. Un paio di volte la settimana tornavo a casa all’alba».
Dipingeva solo i treni?
«E i muri, soprattutto di pomeriggio. Opere alte 2 metri e lunghe fino a 7».
È contro la legge.
«C’erano anche i muri legali. I candidati sindaci ce li mettevano a disposizione a ogni campagna elettorale, salvo revocarci i permessi subito dopo il voto. Comunque il vero writer osserva un codice d’onore non scritto che lo distingue dal vandalo: mai danneggiare gli edifici monumentali, mai coprire le opere altrui con le proprie. In pratica era come prendersi uno spazio occupato dalle affissioni stradali. Qual è la differenza fra un manifesto e un graffito? Nessuna, a parte che il primo paga una tassa e il secondo no. Ma se mi piazzano la gigantografia di una modella in mutande davanti alle finestre di casa non posso toglierla».
Si rende conto d’aver provocato notevoli danni alla collettività?
«Sì, tanti. Ma ho anche pagato cinque o sei multe da 400.000 lire o giù di lì. Il writer agisce in un’età nella quale non ha coscienza del bene pubblico. Mi sono sentito all’improvviso vecchio il giorno in cui il portone liberty della casa in cui abito è stato deturpato con un tag. Prima ho deciso che quel graffito non mi piaceva e poi ho capito di nutrire molto più rispetto per la bravura dell’artigiano che nel 1910 realizzò il portone in ferro battuto, Alessandro Mazzucotelli, l’autore dei lampioni di piazza del Duomo».
Qual è stato il suo lavoro più impegnativo?
«La riproduzione fedele del globo risalente al 1570 un tempo custodito nella biblioteca di San Gallo. Fu rubato durante la seconda guerra di Villmergen, nel 1712, e portato nel Museo nazionale di Zurigo. Ne nacque un contenzioso fra i due cantoni composto soltanto nel 2006. In base all’accordo, Zurigo s’impegnava a regalare a San Gallo una copia perfetta del mappamondo, che ha un diametro di 2 metri. Sono serviti 50 artigiani e quasi tre anni per farlo. Io ci ho lavorato quattro mesi insieme al calligrafo tedesco Klaus Peter Schäffel, scrivendo migliaia di nomi di località, con lettere alte appena 2-3 millimetri. La fedeltà all’originale doveva essere assoluta, errori inclusi. Ho usato un inchiostro fatto con nerofumo di candela, acqua e colla di pesce».
Questo rigore filologico non stride con gli aspetti mercantili del suo lavoro per la pubblicità?
«Sono pieno di amici che mi rimproverano: “Ma come, lavori per la Nike? Venduto!”. È il mio mestiere, quindi mi sono messo l’anima in pace. Nessuno rinfaccia a Gabriele D’Annunzio d’aver inventato la parola “tramezzino” o a Salvador Dalí d’aver dipinto il logo dei leccalecca Chupa Chups».
Usa solo la penna d’oca?
«No, ci mancherebbe altro. Servono anche stilografiche con pennini a lamine parallele, pennelli piatti, Pantone, Rapidograph e brush pen, quelle che si usano per scrivere gli ideogrammi cinesi. Oppure la cola pen».
Questa mi è nuova.
«Si costruisce tagliando a forma di vela una lattina di Coca-Cola e fissandola su un bastoncino col nastro adesivo».
Che rapporto ha col computer?
«Non felicissimo. Come strumento creativo ho smesso di adoperarlo nel 2002. Continuo a servirmene solo per Internet e le mail. Ovviamente sono costretto a usarlo per portare il disegno dal tavolo di lavoro alla stampa. Lo considero un elettrodomestico».
E quando deve prendere appunti in giro per il mondo o scrivere una lettera a qualcuno, che cosa usa?
«Iphone, posta elettronica, Sms o una banalissima penna biro».
Fino agli anni Settanta la calligrafia s’insegnava nelle scuole italiane.
«Abbiamo perso il rapporto con la parola scritta. Un abbruttimento collettivo, perché scrivere è una qualità umana, indispensabile per comunicare con i propri simili. L’uso della tastiera ha amplificato il fenomeno. Ma allora si abbia il coraggio di abolire dai programmi ministeriali anche la storia e la geografia. A che servono nell’era di Google? Vado sul Web e in un baleno trovo tutto quello che devo sapere sulla battaglia di Salamina o sul dipartimento d’oltremare di Saint-Pierre e Miquelon».
Oltre il 40% degli italiani fra i 14 e i 19 anni non sa scrivere in corsivo.
«Non me ne parli. Usano tutti lo stampatello, anche i laureati. Spaventoso».
Perché invece inglesi e americani di ogni età hanno quasi tutti la stessa calligrafia, assai simile alla sua?
«E a quella dei miei nonni. Perché nel Regno Unito e negli Usa il corsivo viene insegnato a scuola. Per corsivo intendo non la grafia inclinata, bensì la scrittura con le legature, senza staccare la penna fra una lettera e l’altra».
Come spiega che, passati 900 anni, il gotico sia ancora di gran moda?
«Penso che dipenda dal forte contrasto fra i tratti grossi e quelli sottili. Ha un fascino irresistibile».
C’è una lode ricorrente che le rivolgono quando esibisce un’opera?
«“Sembra stampata”. Allora mi tocca spiegare che i caratteri di stampa nascono dalla digitalizzazione della calligrafia, non viceversa».
Carta e inchiostro hanno un futuro oppure saranno spazzati via dai tablet?
«Un libro stampato bene rimarrà sempre. La carta straccia no».
Come si puliscono le dita sporche d’inchiostro?
«Con la pasta lavamani per meccanici. Ma a volte mi capita di andare a cena con i polpastrelli un po’ anneriti. E tutti a chiedere: “Che cos’hai combinato?”. Scrivere con la penna è da marziani».
Le dà ansia non avere il posto fisso e lo stipendio garantito a fine mese?
«Tantissima. Mi ritengo un precario. Ma va bene così: non avere sicurezze dovrebbe essere la condizione naturale di tutta l’umanità. Solo da lì viene lo stimolo a cercare orizzonti nuovi e a migliorarsi».
Stefano Lorenzetto
LORENZETTO Stefano. 56 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimo libro: La versione di Tosi (Marsilio).
LORENZETTO Stefano. 56 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café su Raitre. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Dieci libri: Cuor di veneto, Il Vittorioso, Visti da lontano e La versione di Tosi. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.