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 2013  gennaio 02 Mercoledì calendario

CARA, VADO ALLE MALDIVE CON CLAUDIO


Mio padre andava alle Maldive. Ogni anno, per tutti gli anni di cui ho memoria. Certo, erano altri tempi. Non c’erano i cellulari, cara grazia se dall’altra parte del mondo uno faceva un paio di chiamate in teleselezione nell’arco di una settimana, non c’erano geolocalizzazioni, foto su Facebook – insomma, lo sapete: era il Novecento. Epperò.
Andava con un amico, diceva. Non «un amico non meglio specificato»: un amico che in realtà era poco più d’un conoscente con cui lavorava, neppure troppo simpatico. Un certo Claudio: l’unico la cui moglie non facesse parte delle frequentazioni familiari.
Sebbene la cosa sembrasse normale a me bambina ero già allora lenta a elaborare le informazioni e sebbene mia madre non fosse esattamente una scheggia quanto a comprensione di quel che accadeva nel mondo e in casa sua (la lentezza l’avrò pur presa da qualcuno), «vado alle Maldive con Claudio» è così luminosamente cialtrona, come scusa, da essere poi diventata la mia frase in codice per ogni triangolo.
Quanta sospensione del senso del ridicolo serve? Quanta vocazione allo spararla grossa? Quanto spirito di sacrificio? Non aveva mica vent’anni. Negli anni che ricordo io, ne aveva più di quaranta. Non poteva essere così ottenebrato dagli ormoni. Certo che no. Era amore, ammesso che sia possibile distinguere questo nobile sentimento da un subbuglio ormonale – ma a questo arriviamo dopo, che non è prioritario. Il punto è un altro.
È che, per ogni cornificante che annuncia serio «vado alle Maldive con amici», c’è un cornificato determinato a far finta di crederci. Anche adesso, che non è mica più il Novecento.
Mia madre era così di provincia da credere che le corna facessero di lei una Jackie Kennedy, con la stessa struggente pervicacia con cui era convinta che un foulard legato alla borsa facesse di lei una Grace Kelly.
A casa nostra giravano solo amanti. Non di mio padre (oddio, ripensandoci): amanti di professione.
Donne sistemate in appartamenti nei quali aspettavano uomini sposati con un’altra. L’Italia di Ugo Tognazzi, del quale da piccola nessuno mi fece mai vedere un film, ma se ne fosse passato uno mentre ero davanti alla Tv l’avrei probabilmente scambiato per un documentario.
Erano infelicissime, e con la faccia pittatissima. Scusate se me la sbrigo da sola, ma credo di poter risparmiare sull’analista e diagnosticare che, se possiedo sì e no un mascara che perlopiù dimentico di applicare, è perché a un certo punto dei miei anni di formazione ho deciso che a truccarsi fossero solo i casi davvero disperati.
C’erà l’amante del direttore d’orchestra, che passò anni a inseguirlo per camerini tentando di ottenere una proroga ai mesi in cui lui l’aveva frequentata quotidianamente giacché la moglie era a letto con una gravidanza a rischio.
(Inutile dire che mia madre, dal cui vocabolario mancava la pagina con la voce «dignità (s. f.)», le faceva da Cyrano suggerendole modi sempre nuovi con cui elemosinare la di lui attenzione e promettergli devozione assoluta. Inutile precisare che lui non se la riprese mai. Era prima di Adrian Lyne e Attrazione falale, e la moglie di lui non si spazientì al punto di spararle. Era il Novecento: oggi, i coniugi la denuncerebbero per stalking.)
C’era l’amante del commercialista della Bologna-bene (quella in cui mi sono formata era una casa in cui espressioni come «Bologna-bene» venivano usate senza traccia d’ironia: non fate quella faccia, siete stati piccolo-borghesi anche voi, prima di cominciare a darvi un tono), con persino più tempo libero di mia madre: intere mattinate devolute all’estetista, o ad aspettare che lui la infilasse tra una riunione e una partita a golf.
Sono ancora convinta che, quando l’estate della terza media la figlia del commercialista baciò il mio fidanzatino, lo fece per vendicarsi di quei pomeriggi nullafacenti, tra una ceretta e l’altra, che la fallimentare sfasciafamiglie passava a casa nostra. E che, quella volta al mare che il loro cane mi azzannò una coscia, lo fece perché sapeva.
A casa nostra giravano solo amanti, perché in cima alla lista delle cose di cui mia madre aveva disperatamente bisogno c’era il sentirsi di mondo, e nulla le sembrava cosmopolita, evoluto, lontano dalla provincia da cui fingeva di non provenire e dalla piccola borghesia cui fingeva di non appartenere quanto l’ostentare disinvoltura rispetto all’adulterio.
Mio padre è andato alle Maldive per vent’anni con la stessa infermiera. Il bicchiere mezzo pieno di mia madre è che, per tutti e venti gli anni, la moglie del dottore ha continuato a essere lei.