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 2013  gennaio 02 Mercoledì calendario

IO CERTO NON TI LASCERÒ MAI ANDARE

[Niccolò Fabi]

Diresti che Niccolò Fabi ha fatto un viaggio di conoscenza, ascoltando il suo ultimo disco che è bello come un uragano al largo dell’Elba, come il lago Vittoria quando compare dopo una curva all’improvviso, come un ritorno quando l’assenza è stata lunga e la mancanza feroce. Diresti che ha conosciuto, nel posto dove è stato, qualcuno – un saggio, un eremita, un bambino – che gli ha spiegato tutto quello che c’è da sapere e che tutti quanti noi ogni giorno cerchiamo. Nell’amore, nella vita, nell’assenza, nel desiderio, nel ricordo, nella concreta presenza di tutto quello che manca. Deve essere così, i suoi ricci rasta diventati bianchi sul viso da ragazzo lo dicono: deve essere stato in un luogo segreto, averlo attraversato col passo leggero di chi ha il cuore limpido, deve essere stato scelto per essere uno dei pochi che tornano – intatti, in apparenza – col compito di parlare e condividere, di raccontare e dire qualcosa che ci riguarda, tutti e ciascuno, che ci indica proprio quello che non vediamo e che cerchiamo anche senza saperlo.
Vorrei essere capace di raccontare il mio incontro con Niccolò senza neppure una stilla di retorica, senza nemmeno una frase fatta e vuota, senza nessuna presunzione e con luminosa indulgenza proprio come ha fatto lui nel suo disco, che s’intitola, semplicemente, Ecco. Sarà questo il tentativo, perché se questo articolo lascerà in voi la stessa scia di armonia che le sue parole hanno lasciato in me – due ore in un bar, alla vigilia di Natale, piene di lacrime e sorrisi, di scherzi e di segreti – sarà una buona cosa. Proviamo.
«Mi piacerebbe parlare del disco», dice gentile, sedendosi. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Intende: non della mia vita, perché la mia vita è lì, nel mio lavoro. Non siamo qui a parlare di Lulù, che non aveva due anni quando se n’è andata, della materia di cui è fatta Shirin, sua madre, la ragazza con le code che le migliaia di persone che hanno avuto il privilegio di essere al concerto «Paroledilulù» a Casale sul Treja hanno sentito dire dal palco «vi ringrazio, sono felice di essere qui», non siamo qui nemmeno a parlare di Kim che pure meriterebbe due parole, perché ha fatto il 17 di dicembre 3 mesi e ride e mangia e dorme nella nuova casa di Trastevere, ha gli occhi più grandi della faccia e tutto il futuro addosso, il suo e il nostro.
Non siamo qui, in effetti, nemmeno per parlare dell’ospedale pediatrico in Angola, a Chiulo, che con «Cuamm, medici con l’Africa» Niccolò e Shirin hanno ristrutturato e messo in funzione coi soldi raccolti il 30 agosto 2010, al concerto di Casale che era anche la festa di compleanno di Lulùbella volata via, e nemmeno dei due viaggi in Africa che i suoi genitori fanno ogni anno, né dell’asilo nido che è diventata la loro vecchia casa un po’ fuori Roma, quella della vita prima. Tutto questo c’è, naturalmente. C’è ogni minuto. Vive insieme a Kim che ha il nome del mezzosangue un po’ inglese un po’ indio del Libro della giungla e una cameretta in una casa piccola e caotica, da studenti di Erasmus, «perché era importante stare nel cuore della città, dentro le cose». C’è, ed è dentro il cammino di due anni di Niccolò e Shirin, a cui (anche) il disco è dedicato, per arrivare fin qui. «Io certo non ti lascerò mai andare, di certo non ti lascerò sparire», dice un verso di Ecco, la canzone che chiude il disco e anche l’ultima a essere stata scritta. Niccolò: «Sai quel libro di Safran Foer, Molto forte, incredibilmente vicino, scritto dopo le Torri gemelle? Hai presente l’immagine di quell’uomo che cade dal grattacielo? Ecco. Lui che torna su, fotogramma dopo fotogramma, alla scrivania in ufficio, e poi per strada, e poi a colazione a casa, insieme alla sua famiglia. Pensavo a quello quando ho scritto l’inizio della canzone: i pezzi di vetro sparsi per terra tornano di nuovo vicini, risalgono l’aria e sullo scaffale riappare un bicchiere. Ecco è stata l’ultima. Elementare la prima. "Un uomo sta seduto con un’ombra accanto, osserva l’ingresso del suo labirinto", dice. "Ha il futuro che lo insegue, il passato gli è davanti". Non sapevo nemmeno se metterla nel disco. Elementare. Perché l’ho scritta subito, nel momento esatto in cui sentivo tutto questo, sulla cima o sul fondo dell’emozione. Un pavimento molto sdrucciolevole perché se vuoi condividere, cercare il cortocircuito fra quel che succede dentro e quel che succede fuori, fare della tua esperienza non solo un racconto intimo ma il punto di partenza, condivisibile, di quel che può parlare all’esperienza di tutti, allora devi mettere una distanza fra i fatti che generano l’emozione e il suo racconto, la giusta distanza. Alla giusta distanza la vista migliora», ride. È il verso di un’altra canzone, questo.
«Non tutto quello che scrivi deve essere pubblicato, certo. Era l’ottobre del 2010, c’è la mia chitarra e la mia voce di allora, era un viaggio a Aix en Provence. Però poi alla fine mi sembrava insensato toglierla, quella canzone, perché tutto è nato da lì. È la mia impronta di sangue sulla carta. Poi basta però. Perché le persone addolorate parlano solo del proprio dolore e smettono di ascoltare gli altri. Pensano che la loro sofferenza sia la più grande, hanno "quella sensazione di essere immortale di chi ha perso tutto", dice una strofa. E invece c’è da aprire una stanza, abbassare la maniglia ed entrare. La stanza era lì, sono entrato. Si usano gli altri più come specchio che come finestre, in generale. Non conversiamo. Versiamo solo noi stessi in differenti realtà. Tutti gli altri sono strumentali al nostro desiderio di espressione, destinatari di un monologo. L’assenza di ascolto mi sembra la nostra malattia. L’egomania, il mito dell’indipendenza: Io e Indipendente sono una coppia di canzoni che parla di questo. Poi certo una canzone non è un trattato di sociologia. È una domanda. È poi felice chi è indipendente dal consiglio di un amico, dalla donna che sposa, da un passaggio verso casa?».
Un’altra coppia di canzoni parla del viaggio. Sedici modi di dire verde e Lontano da me. Molta Africa, l’alba di ogni cosa, dove «la notte è notte davvero è la madre del buio, il posto dove un uomo sa sedici modi per dire verde», e noi che ne abbiamo uno soltanto per dire addio. Dove «gli uomini perdono tempo perché ne hanno, le donne sopportano i pesi meglio di me». Niccolò: «Il viaggio parla a ciascuno della sua storia. "Sto bene quando sono lontano da me", ho scritto. Poi camminando capisci che hai una responsabilità verso gli altri, non esisti solo tu. La violenza, il dolore, la mancanza: "Vorrei essere padre di una buona idea", ho pensato un giorno. Se metti in circolo la tua vita fai un gesto che serve a tutti e che ti torna indietro come un regalo. Il disco è pieno di cori maschili. Non è solo un dettaglio. Mi sembrava importante che gli uomini si mettessero insieme per dire cose difficili da dire, cose che gli uomini fanno fatica a dire. I cori maschili sono in genere militari, o da stadio. Ecco, qui ci sono uomini che non nascondono la loro fragilità. Lo so, nel complesso può sembrare un disco disordinato. In fondo è il lavoro di un esordiente, mi dico: un debuttante di 44 anni. Sento molto, oggi, che le persone ascoltano la mia musica anche con il desiderio di accostarsi ai luoghi dove la vita mi ha portato e da cui sono tornato.
«Torno oggi, sì. Riparto in tournée, nuovo e diverso ma in fondo da qualche parte uguale. Quando guardo negli occhi Shirin penso che siamo stati fortunati, perché lei è fatta di una materia che gli scienziati dovrebbero studiare ed eravamo, lei ed io, le persone giuste per sopportare tutto questo. Pensa che cosa enorme ti sto dicendo: eravamo le persone giuste, un’altra da lei non ce l’avrebbe fatta, né io senza di lei. Così ora che abbiamo visto tanta vita, dunque tanta morte e tanta vita, tanto tutto, siamo pronti. A chiedere "ma dove corrono tutti?", a dire "verranno a cercarci le cose che abbiamo ignorato", a promettere che ci sarà sempre una cometa da seguire, un maestro da ascoltare. Bisogna solo ricordarsi che ogni volta che l’amore si è nascosto, o l’hai trovato eppure non l’hai detto, non è mai tardi per farlo. Per dire tutte le parole che ti son rimaste in testa, e ripartire senza lasciare indietro niente. Ecco».