Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  gennaio 02 Mercoledì calendario

L’INQUIETUDINE DEI GENI

NELL’INVERNO DEL 1769, all’inizio del suo viaggio nel Pacifico, l’esploratore inglese James Cook ebbe da un sacerdote polinesiano di nome Tupaia un dono straordinario: una mappa. Non è chiaro se Tupaia l’abbia schizzata su carta o solo descritta a parole; quel che è certo è che la mappa diede a Cook un quadro del Pacifico meridionale molto più completo di quello che qualsiasi altro europeo poteva avere avuto a disposizione prima di lui. La mappa descriveva tutti i più importanti gruppi di isole su un’area di circa 5.000 chilometri di diametro, dalle Marchesi fino alle Figi: coincideva con quello che lo stesso Cook aveva documentato, e mostrava molte cose che il capitano non aveva ancora visto.
A Tahiti Cook aveva dato a Tupaia una cuccetta a bordo dell’Endeavour. Subito dopo, il polinesiano sbalordì l’equipaggio conducendo il brigantino fino a un’isola che Cook non conosceva, circa 500 chilometri più a sud, senza mai consultare bussola, carte, orologio o sestante. Nelle settimane che seguirono, mentre aiutava a guidare l’Endeavour da un arcipelago ali’altro, Tupaia stupì ancora i marinai per la sua capacità di indicare con esattezza in direzione di Tahiti, in qualsiasi momento del giorno o della notte, con le nuvole o il sereno.
Cook fu l’unico degli esploratori europei a capire il vero significato delle prodezze di Tupaia. Gli abitanti delle isole sparse per tutto il Pacifico meridionale facevano parte di un unico popolo che molto tempo prima aveva esplorato, colonizzato e tracciato la mappa di quel vasto oceano senza avere a disposizione nessuno degli strumenti nautici che Cook riteneva indispensabili; e che aveva conservato quelle mappe solo nella memoria, trasmettendosele con la tradizione orale.
Sono passati due secoli, e oggi la rete globale di genetisti che cerca di ricostruire i flussi migratori dell’uomo moderno analizzando le tracce di DNA disseminate lungo il percorso, come briciole di Pollicino, potrebbe dimostrare, a Cook che aveva ragione: gli antenati di Tupaia avevano colonizzato il Pacifico 2.300 anni prima. La loro inverosimile migrazione attraverso il Pacifico era il proseguimento di una lunga marcia verso est che aveva avuto inizio in Africa tra 70 mila e 50 mila anni prima. Dal canto suo Cook, con il suo viaggio, continuava la migrazione dall’Africa verso ovest che i suoi antenati avevano intrapreso più o meno contemporaneamente a quelli di Tupaia. Così rincontro tra i due uomini aveva chiuso un cerchio aperto tanti millenni prima.
Cook morì dieci anni dopo, alle Hawaii, per una lite finita male. Gli isolani rubarono una barca; il capitano perse la calma e aprì il fuoco, e assieme al suo equipaggio ne uccise diversi, ma gli hawaiani riuscirono a catturarlo sulla battigia e lo pugnalarono a morte. Per qualcuno l’uccisione di Cook segnò la fine di quella che gli storici occidentali chiamano l’età delle esplorazioni. Ma da allora non abbiamo certo smesso di esplorare. Siamo rimasti ossessionati dal bisogno di aggiungere dettagli alle carte geografiche della Terra; di raggiungerne i poli, le vette più alte, le fosse oceaniche più profonde; di navigare fino a ogni suo più remoto angolo e poi di volare via dal pianeta, nello spazio. Oggi, mentre seguiamo con passione il rover Curiosity che sta esplorando Marte, gli Stati Uniti, assieme ad altri governi e a diverse società private, si preparano a spedire sul pianeta rosso anche l’uomo. Qualche sognatore parla ad- dirittura di inviare un veicolo spaziale verso la stella più vicina.
Michael Barrati - che è stato medico, subacqueo, pilota di jet, marinaio per 40 anni, e da 12 è astronauta della NASA - è tra quanti non vedono l’ora di poter andare su Marte. Lui considera i suoi viaggi come il proseguimento di quello nel Pacifico di Cook e Tupaia. «Stiamo facendo proprio come loro», spiega. «È sempre così, in ogni momento della storia umana. Una società sviluppa una tecnologia abilitante, che sia la capacità di conservare e trasportare il cibo o quella di costruire una nave o di lanciare un razzo. Poi si trova sempre qualcuno che ha la passione di partire per esplorare l’ignoto, anche a costo di attaccarsi un razzo al sedere».
Non tutti moriamo dalla voglia di cavalcare un razzo o di navigare nello spazio infinito. Ma la curiosità tipica della nostra specie ci spinge a finanziare parte del viaggio e a festeggiare il ritorno dei viaggiatori. È vero che esploriamo per trovare un posto migliore per vivere, per conquistare nuovi territori, per fare fortuna. Ma esploriamo anche solo per scoprire che c’è dall’altra parte.
«Nessun altro mammifero se ne va in giro come facciamo noi», dice Svante Pääbo, direttore dell’Istituto Max Planck di Antropologia evolutiva di Lipsia, dove studia le origini dell’uomo attraverso la genetica. «Noi scavalchiamo i confini. Ci spingiamo in nuovi tenitori anche quando lì dove siamo non ci mancano le risorse. Gli altri animali non lo fanno. E nemmeno le altre specie umane. I Neandertal sono vissuti per centinaia di migliaia di anni, ma non si sono mai sparsi per il mondo. Noi in soli 50 mila anni abbiamo occupato tutto il pianeta. C’è una sorta di follia in questo. Quando viaggi in mare aperto non hai idea di cosa ci sia dall’altra parte. E adesso andiamo su Marte. Non ci fermiamo mai. Perché?».
Già, perché? Pääbo e gli altri ricercatori che cercano di rispondere sono loro stessi esploratori che si addentrano in territori sempre nuovi. Sanno che in qualunque momento potrebbero essere costretti a tornare sui propri passi e riorganizzarsi. Sanno che le loro discipline - antropologia, genetica, neuropsicologia dello sviluppo - sono giovani. E che quindi qualsiasi teoria potrebbe crollare alla luce di nuove scoperte. Ma per chi studia il comportamento umano l’impulso a esplorare è un argomento irresistibile. Da dove nasce questa "follia"? Che cosa ci ha spinti a lasciare l’Africa e ad arrivare fino alla Luna e oltre?

SE IL NOSTRO IMPULSO A ESPLORARE è innato, forse la sua origine risiede nel genoma. E in effetti esiste una mutazione genetica di cui si parla spesso quando si affrontano questi temi: è una variante del gene DRD4, che serve a controllare la dopamina, un neurotrasmettitore prodotto dal cervello che ha un ruolo importante nei meccanismi dell’apprendimento e della ricompensa. La variante, di cui è portatore circa il 20 per cento degli esseri umani, si chiama DRD4-7R, e diversi studi la associano alla curiosità e all’irrequietezza. Chi la reca sarebbe più disposto a correre rischi, a esplorare nuovi luoghi e idee, a provare nuovi cibi, relazioni, droghe, ad approfittare di occasioni sessuali e, in generale, ad accettare con entusiasmo il movimento, il cambiamento e l’avventura. Non a caso, la variante sarebbe anche correlata all’ ADHD, il disturbo da deficit di attenzione e iperattività.
Diverse ricerche, inoltre, hanno trovato una correlazione tra la variante 7R e le migrazioni umane. Nel 1999 un primo studio ad ampio raggio, condotto da Chuansheng Chen della University of California a Irvine, mostrò che tra le moderne popolazioni nomadi 7R era più presente che in quelle stanziali. Nel 2011 un’altra ricerca, più ampia e più rigorosa dal punto di vista statistico, ha riscontrato che 7R, assieme a un’altra variante chiamata 2R, ha un’incidenza maggiore della semplice variabilità casuale tra quelle popolazioni i cui antenati, dopo aver lasciato l’Africa, affrontarono migrazioni più lunghe. Nessuno dei due studi implica necessariamente che sia stata proprio la variante 7R a rendere inquieti quegli antenati; ma entrambi fanno pensare che lo stile di vita nomade selezioni la variante.
Un’ulteriore conferma viene da un altro studio recente. Tra le tribù nomadi degli Ariaal, una popolazione africana, i portatori dell’allele 7R tendono a essere più forti e meglio nutriti di quelli che non ce l’hanno, un dato che indicherebbe una maggiore idoneità alla vita nomade e forse anche uno status sociale più alto. Se invece conducono una vita stanziale nei villaggi, i portatori di 7R tendono invece a essere peggio nutriti. Insomma, come accade per molti geni e tratti, il valore della variante dipenderebbe dall’ambiente: può darsi che una persona irrequieta stia benissimo in un ambiente mutevole e deperisca in una condizione di stabilità, e che lo stesso si possa dire per tutti i geni che producono questi tratti caratteriali.
Ma allora, l’allele 7R è davvero il gene dell’esploratore, o gene dell’avventura, come alcuni lo chiamano? Kenneth Kidd, un genetista della Yale University che vent’anni fa è stato tra gli scopritori della variante, avverte di non sopravvalutarne il ruolo. Come altri scettici, Kidd pensa che molti degli studi che collegano 7R alla tendenza a esplorare siano carenti dal punto di vista del metodo o della statistica. Ci sono altrettanti studi, sostiene, che negano che esista quel legame. «Non si può ridurre a un singolo gene una realtà complessa come l’esigenza umana di esplorare», commenta ridendo. «La genetica non funziona così».
Qualunque sia la conclusione finale sul ruolo di 7R, i genetisti concordano sul fatto che non basti un gene o un insieme di geni a programmarci per l’esplorazione. È più probabile che gruppi diversi di geni contribuiscano a creare tratti multipli: alcuni ci forniscono gli strumenti che ci permettono di esplorare, altri, tra cui forse 7R, ci spingono a farlo. Insomma non bisogna pensare solo all’impulso ma anche alle capacità: non basta la motivazione, occorrono anche i mezzi.
Jim Noonan, esperto di genetica dello sviluppo e dell’evoluzione, si occupa di questi temi in un ufficio che si trova solo un piano sotto quello di Kidd. La sua ricerca è incentrata sui geni costruttori di due sistemi chiave del nostro organismo: gli arti e il cervello. «Sarò in conflitto di interessi», spiega, «ma se proprio devo sintetizzare, direi che la nostra abilità di esploratori deriva proprio da quei due sistemi». Nell’uomo, continua, i geni che costruiscono gli arti e il cervello sono sostanzialmente uguali a quelli che assolvono la stessa funzione negli altri ominidi e nelle scimmie antropomorfe. Le differenze tra le specie sono dovute soprattutto al fatto che i geni attivano e arrestano i processi di sviluppo in tempi diversi. Nell’uomo il processo produce gambe e anche che gli permettono di percorrere lunghe distanze, mani estremamente abili, e un cervello ancora più abile che cresce molto più lentamente di quello degli altri primati ma raggiunge dimensioni di gran lunga maggiori. Questi tre tratti ci separano dalle grandi scimmie e, in piccoli ma essenziali dettagli evolutivi, dagli altri ominidi. Queste differenze, prosegue Noonan, compongono un insieme unico di tratti fatto apposta per stimolare l’esplorazione. Abbiamo una grande mobilità, una straordinaria destrezza «e, cosa più importante di tutte, un cervello in grado di elaborare un pensiero immaginativo». E ciascun tratto amplifica gli altri: «Pensiamo a un attrezzo», spiega lo studioso. «Se lo sappiamo usare bene e abbiamo abbastanza immaginazione, ci verranno in mente altri modi per usarlo». E mentre ci pensiamo immagineremo nuovi obiettivi che quell’attrezzo ci aiuterà a realizzare.
Questo circuito di retroazione, osserva Noonan, aiutò il grande esploratore anglo-irlandese Ernest Shackleton a salvarsi quando, nel 1916, la sua nave fu stritolata dai ghiacci dell’Antartide, e lui rimase bloccato con il suo equipaggio su Elephant Island. A 1.300 chilometri di distanza dal più vicino insediamento umano, con 27 uomini esausti, poche scorte di cibo e tre piccole scialuppe scoperte, Shackleton concepì un piano apparentemente folle. Con i pochi, elementari attrezzi che aveva a disposizione, modificò una scialuppa (un altro attrezzo) per permetterle di affrontare un’impresa che andava assurdamente al di là degli scopi per cui era stata progettata, e poi, con cinque uomini e pochi strumenti nautici, si imbarcò per un viaggio che pochi oserebbero anche solo immaginare. Ma riuscì a raggiungere la Georgia Australe, per poi tornare su Elephant Island e trarre in salvo il resto dell’equipaggio.
Secondo Noonan, l’avventura di Shackieton mostra chiaramente la dinamica che ha guidato sin dall’inizio il progresso e le esplorazioni dell’uomo: alimentando l’abilità con l’immaginazione, generiamo benefici «che favoriscono la selezione naturale di questi due tratti».

PER NOONAN IL NOSTRO CERVELLO Voluminoso e le nostre mani abili contribuiscono a sviluppare la nostra capacità di immaginazione. Per Alison Gopnik, psicologa dello sviluppo infantile a Berkeley, noi esseri umani abbiamo un altro vantaggio: una lunga infanzia in cui possiamo soddisfare la nostra voglia di esplorare mentre ancora dipendiamo dai nostri genitori. Veniamo svezzati circa un anno e mezzo prima dei gorilla e degli scimpanzé, ma poi impieghiamo molto più tempo a raggiungere la pubertà: circa dieci anni, contro i tre-cinque tipici degli altri grandi primati. Dalle analisi sui denti di Neandertal sembrerebbe che anche loro crescessero più rapidamente di noi. Più di qualsiasi altra specie, l’uomo dispone di un periodo di "gioco pro- tetto" in cui può esercitarsi a esplorare.
Molti animali giocano, spiega Gopnik, ma lo fanno soprattutto per esercitarsi in attività primarie come la lotta e la caccia. Nei bambini, invece, il gioco consiste nel creare scenari ipotetici, con regole artificiali che mettono alla prova le ipotesi. Posso costruire una torre di mattonarli alta quanto me? Che succede se alziamo ancora la rampa per le bici? Come cambierà questo gioco se io faccio il maestro e mio fratello grande lo scolaro? In questo modo il bambino diventa un esploratore di scenari colmi di possibilità contrastanti.
Crescendo, prosegue la studiosa, giochiamo sempre meno, diventiamo meno inclini a esplorare le novità e più condizionati a scegliere soluzioni familiari. Durante l’infanzia ci costruiamo i circuiti cerebrali e l’apparato cognitivo adatti all’esplorazione; se rimaniamo vigili anche da adulti, le esperienze fatte da bambini ci permettono di capire in quali situazioni ci conviene cambiare strategia. Esisterà un passaggio a nord-ovest? Sarà più facile raggiungere il Polo con slitte trainate da cani? Magari, chissà, possiamo far atterrare un rover su Marte calandolo con un cavo da un hovercraft.
«Ce la portiamo dietro questa capacità», dice ancora Gopnik. E quelli che conservano uno spirito giocoso che gli consente di cogliere le opportunità - da Cook e Tupaia agli astronauti di oggi - sono gli esploratori.

NEGLI ANNI TRENTA DELL’OTTOCENTO, nelle Vaste foreste del Quebec, un’irrequieta popolazione di pionieri diede inizio a un lungo e rischioso esperimento. Quebec City, costruita dai francesi lungo le rive del fiume San Lorenzo, stava crescendo in fretta, e a nord della città, lungo il Saguenay, si estendeva una grande foresta pressoché intatta. Questo territorio, ricco ma selvaggio, cominciò presto ad attirare taglialegna e giovani famiglie di agricoltori disposti a lavorare sodo e a rischiare per cogliere le opportunità. Cominciarono a costruire un villaggio dopo l’altro, colonizzando poco a poco tutta la valle del fiume. Dal punto di vista del biologo, un’ondata migratoria del genere non si limita a radunare nella stessa zona un particolare tipo di persone, ma può servire anche a concentrare e a favorire la diffusione di quei geni che incoraggiano quelle persone a migrare.
A volte i geni cavalcano queste ondate passivamente, in modo più o meno accidentale: può accadere che siano diffusi tra i leader della migrazione, e per questo si diffondono nelle comunità da loro istituite. Se, per esempio, tra i primi coloni europei nell’America del Nord il gene dei capelli ricci fosse stato particolarmente diffuso, oggi quel tratto sarebbe comune in tutto il continente, anche se non conferiva un particolare vantaggio ai portatori.
Ma può accadere che siano i geni a pilotare la propria selezione. Un esempio famigerato è quello del rospo delle canne, una specie originaria dell’America del Sud introdotta nel Nord-Est dell’Australia intorno al 1930, che oggi conta più di 200 milioni di individui e sta avanzando nel continente al ritmo di 50 chilometri l’anno. I rospi che guidano l’avanzata hanno zampe più lunghe del 10 per cento rispetto ai loro antenati del secolo scorso, e notevolmente più lunghe anche rispetto ai loro simili rimasti appena un chilometro più indietro. Come si spiega? I rospi che hanno zampe lunghe e sono predisposti alla migrazione sono quelli che vanno avanti, portandosi dietro i geni che determinano quei tratti, e accoppiandosi con altri rospi dai tratti simili. Danno così vita ad altri rospi irrequieti e dalle zampe lunghe, che continueranno ad avanzare ripetendo il ciclo.
Laurent Excomer, genetista delle popolazioni all’Università di Berna, crede che qualcosa di si- mile sia accaduto ai taglialegna del Quebec. Nel 2011 ha analizzato con alcuni colleghi i registri parrocchiali che documentavano secoli di nascite, matrimoni, insediamenti e morti, concludendo che le famiglie dei pionieri si comportavano e si riproducevano in modo da diffondere, con i loro geni, proprio i tratti che li portavano all’avanguardia della migrazione. Rispetto a chi era rimasto nel luogo di origine, si sposavano prima, magari perché erano impazienti per natura, ma anche perché la disponibilità di terreni e l’atmosfera sociale della frontiera incoraggiava questa precocità. Di conseguenza facevano più figli (9,1 in media per famiglia contro i 7,9 delle famiglie che non erano emigrate), che a loro volta si sposavano prima e procreavano di più. Risultato: ciascuna coppia di pionieri ha prodotto il 20 per cento in più di discendenti, cosa che rappresentò un netto vantaggio evolutivo. I tratti genetici e culturali tipici di queste famiglie si diffusero rapidamente, anzitutto all’interno della loro popolazione, e poi in tutto il bacino demografico dell’America del Nord.
Excoffier sostiene che se questo fenomeno, che qualcuno chiama gene surfing, si è verificato spesso durante le migrazioni umane, deve aver selezionato un complesso di geni che sollecitano la curiosità, l’irrequietezza, l’innovazione e la propensione al rischio. Questo, dice lo studioso, «potrebbe in parte spiegare la nostra indole da esploratori». Forse l’esplorazione crea un circuito autorinforzante che potenzia e diffonde i geni e i tratti che la inducono.

C’È UN’ALTRA DINAMICA autorinforzante che opera nell’ambito dell’esplorazione: una continua interazione tra cultura e geni, in cui i geni plasmano la cultura che creiamo e la cultura a sua volta plasma il nostro genoma. Parliamo di cultura in senso ampio: le conoscenze, le prati- che, le tecnologie che gli uomini impiegano e condividono per adattarsi a un ambiente. Queste realtà esistono solo perché i nostri tratti genetici si sono evoluti in modo che potessimo crearle e rimodellarle di continuo. Ma allo stesso modo la cultura può indirizzare la nostra evoluzione genetica, a volte in maniera sorprendentemente rapida e diretta.
Un classico esempio riguarda la diffusione del gene che consente di digerire il lattosio. Chi non ne è portatore ha problemi a digerirlo dopo l’infanzia. Quindicimila anni fa non l’aveva quasi nessuno, perché non procurava alcun vantaggio. Era solo una mutazione che circolava. Ma all’incirca 10 mila anni fa i primi agricoltori europei cominciarono ad allevare vacche da latte: era la nascita di una cultura del tutto nuova e di un modo di vivere completamente diverso. D’un tratto, chi possedeva quel gene poteva avere accesso a una fonte di cibo affidabile e disponibile tutto l’anno, e sopravvivere a carestie che uccidevano gli altri. Così il gene si diffuse rapidamente in tutta Europa, anche se rimase raro in quasi tutto il resto del mondo. Cultura e geni si selezionarono a vicenda: la nuova cultura diede valore al gene, e questo, diffondendosi, rese sempre più importante la cultura basata sul latte.
I segni di questa dinamica sono visibili in molti comportamenti umani, e in particolare nell’esplorazione. La prima volta che un nostro antenato usò una pietra per spaccare una noce, il suo gesto fondò una cultura che potrebbe aver selezionato i geni che favoriscono destrezza e immaginazione, e la diffusione di queste facoltà ha a sua volta accelerato lo sviluppo della cultura. Shackleton sfruttò la sua cultura (navi, strumenti, capacità di innovazione e di orientamento, per non parlare dello stoicismo britannico) per esplorare nuovi territori e tornare vivo a casa. Nel caso dei bambini esploratori, è stata l’antica cultura dell’allevamento collettivo (madre, padre, nonni e altri parenti) a massimizzare il valore di quei geni che allungano il periodo di sviluppo cerebrale nell’uomo. E le famiglie di pionieri del Quebec sfruttarono i loro tratti genetici che favorivano l’irrequietezza creando una sottocultura che premiava la curiosità, lo spirito innovativo, la tenacia e la propensione al rischio, oltre a una cultura materiale fatta di asce, scuri, picconi e di tutti gli altri attrezzi necessari a tagliare la legna, costruire case, spostarsi nel loro ambiente.
Con le sue navi, la bussola, il sestante e un mandato del re, anche Cook sfruttò la sua intelligenza e la sua curiosità per portare a casa la mappa di un mondo fino ad allora sconosciuto. La sua impresa accrebbe sia il valore della cultura marittima dell’Impero Britannico sia quello dei tratti genetici di cui il grande navigatore aveva dato prova nei suoi incessanti e rischiosi viaggi intorno al mondo.

MA ALLORA CHE DIRE DI TUPAIA? I suoi geni e la sua cultura sembrano aver seguito un percorso bizzarro. Tra le migrazioni umane, quella dei polinesiani nel Pacifico è una delle più insolite. Fu la prima e una delle più veloci, poi si fermò, e infine terminò con una volata da record.
Il viaggio cominciò circa 60 mila anni fa, quando una delle prime ondate migratorie partì dall’Africa e, attraverso il Medio Oriente, raggiunse la costa meridionale dell’Asia. Poi, in soli 10 mila anni, arrivò fino all’Australia e alla Nuova Guinea, al tempo più accessibili per il basso livello del mare. Per altri 10 mila anni i polinesiani si sparpagliarono tra le isole di questa regione, a volte indicata come Vicina Oceania, fino a raggiungere gli arcipelaghi delle Bismarck e delle Salomone. Lì si fermarono.
Ana Duggan, che studia questa migrazione all’Istituto Max Planck, spiega che fino a quel punto i polinesiani erano riusciti a navigare a vista: una nuova isola spuntava all’orizzonte prima che dietro di loro sparisse quella da cui erano partiti. Ma una volta superate le Salomone si può andare avanti per settimane senza mai vedere terra. Ne le tecniche di navigazione di questi abitanti della Vicina Oceania, ne le loro imbarcazioni - probabilmente semplici zattere o piroghe ricavate da un tronco - erano all’altezza di simili imprese. Così si fermarono lì, entro i confini del loro orizzonte visivo.
«Il seguito è un po’ controverso», prosegue Duggan, ma si tratta di una teoria accettata da gran parte degli studiosi sulla base di un crescente numero di prove linguistiche, archeologiche e genetiche. All’incirca 3.500 anni fa gli abitanti della Vicina Oceania ricevettero visitatori da nord: appartenevano al cosiddetto popolo degli austronesiani, che un migliaio di anni prima aveva lasciato Taiwan e le coste della Cina meridionale spargendosi nelle Filippine e in altre isole del Sud-Est asiatico. Arrivati lì si mescolarono con gli indigeni, dando vita nell’arco di qualche secolo a una nuova popolazione, i Lapita. Che subito salparono sul Pacifico in direzione est.
Che cosa li spinse a mettersi in viaggio? Probabilmente non furono i nuovi geni. Anzi, tra gli austronesiani le varianti 7R e 2R erano ancora meno diffuse che tra le popolazioni che li ave- vano accolti. Ma i nuovi arrivati, spiega Duggan, «portarono con sé barche migliori».
Si trattava di vere e proprie navi: lunghe piroghe dotate di vele e bilancieri, molto più veloci, in grado di navigare più a lungo anche col mare in tempesta. Con ogni probabilità suscitarono tra gli indigeni enorme entusiasmo, ancor oggi rintracciabile nella cultura polinesiana e nella longevità del suo vocabolario nautico, dando grande prestigio ai loro possessori. La motivazione a esplorare cresce all’aumentare della possibile ricompensa. Come gli astronauti di oggi, i costruttori di navi e i marinai delle isole del Pacifico devono aver goduto di un prestigio sociale che accresceva le loro opportunità di trovare una compagna, procurava sostegno sociale ed economico e generava una spinta motivazionale che poteva soddisfare l’irrequietezza indotta dai geni. Come dice Wade Davis, antropologo ed explorer-in-residence di National Geographic, «Quando salpi per andare a scoprire nuove terre, diventi un mito, anche se non torni più». E così anche Tupaia, cavalcando il DNA dei suoi antenati, salpò verso est.
La storia delle navi polinesiane è una potente metafora di come un elemento culturale può dare al flessibile genoma dell’uomo, alla sua mente propensa all’immaginazione e alle sue abili mani il potere di trasformare in opportunità anche gli elementi ambientali più minacciosi e incontrollabili: i venti, l’acqua, le correnti. Che il vento si alzi pure fino a ululare e a sollevare una tremenda burrasca: l’alternativa non è più tra restare a casa o naufragare, possiamo cambiare andatura, orientare le vele, trasformare la nostra barca in un mezzo completamente diverso. Ai Lapita che guardavano l’oceano sterminato dalla punta più a est delle isole Salomone, le nuove imbarcazioni devono essere sembrate qualcosa di simile a un paio di gambe nuovo di zecca. Con la mano sulla barra del timone e nuove isole in mente, potevano proseguire il loro viaggio intorno al globo.
Ce n’è abbastanza per emozionare anche una genetista del Max Planck. Ana Duggan confessa di non essere molto portata per la navigazione. «Ma se qualcuno arrivasse su una di quelle piroghe», scherza, «e mi dicesse: "Guarda che bella, è nuova, ci posso andare lontano", beh, io salirei a bordo».