Andrea Morandi, il Venerdì 4/1/2013, 4 gennaio 2013
LUDOVICO EINAUDI
[Nelle hit e in primo piano, ma per lavorare si e chiuso in convento] –
Poco più di vent’anni fa era un copista alla Ricordi: trascriveva partiture, rispondeva paziente alla solita domanda («Einaudi, parente?») e aspettava una svolta che sembrava non arrivare mai. Oggi ha cinquantasette anni, è un pianista celebre in tutto il mondo, ha venduto un milione di dischi e fa concerti alla Scala e al Bolshoi di Mosca, a Nanchino in Cina come alla Rovayl Albert Hall di Londra.
Strano arabesco artistico quello di Ludovico Einaudi - sì, «figlio di Giulio e nipote di Luigi» - divenuto celebre a metà anni Novanta, quando un suo disco, ispirato a un romanzo di Virginia Woolf (Le onde) lo rese improvvisamente un pianista da hit parade. Da allora la sua ascesa verso la popolarità (e verso i piani alti delle classifiche) non si è più arrestata e il prossimo 5 febbraio, pubblicherà un nuovo disco, In a Time Lapse, registrato nel monastero di Lonigo, vicino a Vicenza. «Senza dubbio la mia è una parabola anomala» ammette, «alla fine degli anni Ottanta, quando facevo il copista, per arrotondare scrivevo jingle pubblicitari e musica per documentari: lavoretti che mi permettevano di andare avanti. Poi ho capito che dovevo osare, prendermi la responsabilità di un progetto nuovo e rischioso».
Da quel momento Einaudi si è trasformato nel capostipite di una lunga serie di pianisti star, figure capaci di suscitare la reverenza «dovuta» a chi fa musica classica, combinata, però, con quel culto della personalità di cui è intriso il mondo del pop. Oggi i suoi concerti sono sold out ovunque, i suoi fan si danno appuntamento su Facebook (ne ha oltre 300 mila) e i suoi vecchi album sono perennemente in ristampa. «Parlando di numeri, sono felice soprattutto perché con la mia musica sono riuscito a entrare in contatto con tante persone» dice. «Non era affatto scontato quando ho cominciato».
La sua carriera iniziò a metà anni Settanta in un gruppo prog, i Venegoni & Co. Immaginava come sarebbe andata avanti?
«Ovviamente no. È stata una grande avventura: ho percorso una strada poco battuta, che avrebbe potuto rivelarsi un vicolo cieco. Un pianista strumentale che suonava musica inedita, a quel tempo, era una cosa bizzarra da definire, al punto che erano spaesati perfino nei negozi di dischi. Non sapevano dove collocarmi: se nel reparto della classica o in quello del pop».
E lei in quale scaffale si sarebbe «posizionato»?
«Per me non era importante. Capii il problema, però, quando seppi che chi chiedeva gli spartiti per pianoforte di Le onde si sentiva rispondere: "Niente opere moderne, abbiamo solo classici"».
Il successo è arrivato solo nel 1996, quando lei aveva 41 anni. Mai pensato di mollare, prima?
«No, ma a un certo punto ho pensato che avrei potuto starmene ad aspettare seduto al pianoforte per tutta la vita e non sarebbe successo nulla. E mi sono detto che, se non credevo io in quello che componevo, non avrebbero potuto certo crederci gli altri. Le onde è nato anche da quella riflessione».
Adesso, invece, quello che tocca si trasforma in oro: ha anche scritto la colonna sonora per uno dei film più visti dell’anno, il francese Quasi amici.
«In realtà la prima volta che i due registi, Eric Toledano e Olivier Nakache, mi hanno chiamato, volevano che scrivessi una colonna sonora originale, ma ero in tour e non avevo tempo. Si sono accontentati di usare miei vecchi brani che ho registrato di nuovo per l’occasione. Un incontro fortunato. Nonostante la sceneggiatura fosse buona, non mi aspettavo che il film potesse avere un successo di tali dimensioni: è entrato anche nelle nomination per il miglior film straniero ai Golden Globes».
Lei ha registrato un disco alla Royal Albert Hall di Londra e suona spesso in giro per il mondo, da San Francisco a Tokyo. Che Paese è l’Italia vista da lontano?
«Un Paese pieno di difficoltà e problemi che, nonostante tutto, rimane sempre molto amato. A questo punto, anche troppo».
Che cosa intende dire?
«Che spesso mi chiedo come faccia a resistere ancora tutta questa passione per noi, e per la nostra terra, quando vedo in atto una lenta e progressiva distruzione. Spero ci sia ancora tempo per risalire, ma ci stiamo involgarendo progressivamente, è in corso un inesorabile processo di autodistruzione che tocca tutto, dal paesaggio alla cultura. A volte ho l’impressione che raccontiamo un’Italia che già non c’è più, un Paese che non è più quello reale».
Per questo ha voluto registrare In a Time Lapse in un monastero?
«Per questo e molti altri motivi. Nel corso delle settimane, il tempo che ho passato in quel luogo ha assunto le caratteristiche di un isolamento volontario: la giornata era scandita dagli orari dei pasti del convento, non c’erano fonti di distrazione, nessun rumore se non il suono delle campane. Una sera a mensa ho iniziato a parlare con un signore che si era trasferito li. Usciva solo per lavorare e rientrava la sera. "Perché?" gli ho chiesto. E lui, con naturalezza: "Qui ho finalmente trovato la pace"».
A che cosa si è ispirato per i suoi nuovi brani?
«Alla necessità dell’essenza. Oggi siamo ossessionati dalla comunicazione, dalla connettività: in una stessa casa quattro persone in stanze diverse parlano con individui distanti chilometri e si dimenticano di dialogare tra loro, non si stabiliscono i più elementari punti di contatto. La tecnologia è formidabile, ma bisogna fare attenzione a non perdere di vista il senso del tutto. Vedo gente che passa ore davanti a un computer e non sa nemmeno se fuori piove o c’è il sole».
E in monastero che cosa faceva quando non suonava?
«Leggevo. Mi ero portato Walden. Vite nei boschi di Henry David Thoreau, lo avevo sempre in tasca. Appena potevo mi rifugiavo in quelle pagine come fossero un mondo parallelo. Oltre a Thoreau avevo anche un altro libro. Nelle foreste siberiane di Sylvain Tesson, storia di un uomo che per sei mesi si è ritirato in una capanna su un lago in Siberia per ritrovare se stesso. Mi affascinano queste figure estreme. Forse perché so che non sarei mai capace di avventurarmi in un’esperienza del genere».
Forse il suo rifugio è la musica.
«In un certo senso sì, è cosi. Vedo il pianoforte come la mia barca: cerco di averne cura, per poi salpare verso un luogo lontano dal mondo, in cui riuscire però a pensare alle cose concrete. Per essere capace di vedere l’albero e la foresta, il dettaglio e l’insieme. Tutto, contemporaneamente».