Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  gennaio 04 Venerdì calendario

ALESSANDRO PORTELLI

[Noi, come Gatsby, dobbiamo sognare anche l’impossibile] –
ROMA.
Alessandro Portelli, 70 anni, lascia l’università, la Sapienza di Roma, dove ha insegnato per tanti anni Letteratura americana. Antropologo, storico, esperto i di letteratura americana e di musica popolare, opinionista del manifesto, Portelli è indubbiamente poliedrico. Per un breve periodo è stato anche consigliere comunale per Rifondazione comunista a Roma. «Ma è stata una esperienza deludente» racconta al Venerdì. «Io avevo in testa le battaglie di Aldo Natoli contro le speculazioni immobiliari, invece si trattava solo di spingere bottoni. Era tutto concordato, anche gli interventi: uno alla maggioranza, uno all’opposizione. In un anno e mezzo sono riuscito a parlare due volte, e ce ne vuole per farmi tacere».
Portelli ha attraversato la storia e le lotte operaie del Novecento, intervistando gli operai delle acciaierie di Temi, i minatori del Kentucky, i parenti delle persone uccise alle Fosse Ardeatine, i protagonisti della musica popolare dei Castelli Romani. Il filo conduttore dei suoi studi è l’uso della memoria e della narrazione orale.
«Ho cominciato a scoprire questa passione» racconta «a partire dalla musica popolare, anzitutto quella americana, e poi per me c’è stata la grande lezione di Gianni Bosio (lo storico socialista che ha fondato la rivista Movimento operaio). Conta il fatto che le persone ricordino, che parlino, che ci sia la pratica del diritto di parola».
Oggi internet rimette fortemente in discussione l’approccio alla ricerca storica e antropologica, i suoi metodi e le sue tecniche, la stessa organizzazione dei dati culturali. «Non riesco ad appassionarmi a YouTube: sono cresciuto nel feticismo per il supporto materiale, il documento originale, e non averlo mi disorienta» dice. E poi il web è pieno di informazioni non verificate e di fonti non autorevoli. L’ha provato su di sé: «Sono molto grato a Wikipedia per aver messo in rete una mia biografia piena di errori e omissioni: mi definiva "paroliere" e lo portavo come esempio ai miei studenti».
Desiderio di altri mondi (Donzelli, pp. 324, euro 22), il suo ultimo libro, nasce proprio in occasione del pensionamento, vissuto con levità ironica. «Una delle più sgradevoli consuetudini baronali» racconta «era quella per cui gli allievi in cattedra facevano un libro in onore del maestro che andava in pensione. Mi divertiva l’idea di farmelo da solo quel libro». Del resto, da antropologo, aveva già rovesciato la tradizione: era stato lui - insieme ad altri - a scrivere sui suoi allievi, in L’aeroplano e le stelle (manifestolibri, 1995), dedicato agli studenti di Villa Mirafiori, sede di Lettere e filosofia a Roma. «Quella ricerca sulla memoria storica a Villa Mirafiori fu abbastanza insolita: normalmente c’è una comunità, poi arriva un antropologo, fa una ricerca e se ne va. Invece là c’era una comunità, l’antropologo ha fatto la ricerca e poi la comunità si è laureata e se ne è andata, lasciandolo lì».
Ma com’è cambiata oggi l’università?
«Il grosso cambiamento è avvenuto con l’introduzione dei moduli (lo spezzettamento di alcuni esami su più cattedre, e quindi più professori) che ha reso più difficile avere un rapporto a lungo termine con gli studenti. Quando Letteratura americana era quadriennale avevi invece un gruppo di persone che lavoravano con tè quattro anni. Li conoscevi, loro conoscevano te».
L’introduzione dei moduli è stata quindi un peggioramento per l’università?
«La mia esperienza è quella del disorientamento da parte degli studenti, di una frammentazione e di una difficoltà nel costruire un rapporto».
Nel frattempo sono anche cambiati gli studenti...
«Ma sa, c’è una frase meravigliosa di Domenico Starnone che dice che ogni anno gli studenti li fanno più giovani. Il fatto che siano sempre più giovani, o meglio il fatto che sei sempre più vecchio tu, rende sempre più difficile trovare delle conoscenze condivise. Un giorno guardando l’aula ebbi questa epifania: questi sono nati quindici anni dopo lo scioglimento dei Beatles. Per me i Beatles erano ancora una cosa nuova, venivano dopo Elvis Presley. Poi l’altro cambiamento ovviamente è che, quando io ho cominciato, c’era il fascino dell’America. Ma l’America ha avuto tanto di quel successo che ormai per avere l’America non c’è più bisogno degli Stati Uniti».
Come sono cambiate le lotte sociali e civili con l’America di Obama?
«Negli anni Settanta c’era fermento, c’era gente che si muoveva e creava conflitti. Barack Obama è sicuramente una figura che tende ad attenuare i conflitti, li assorte, li media, che è una cosa anche ammirevole. Occupy Wall Street e gli altri Occupy sono interessanti perché hanno in comune con i movimenti dei decenni precedenti il fatto di porsi, in un certo senso, lateralmente rispetto alla politica istituzionale».
I conflitti sociali attuali hanno quindi qualche torma di continuità con quelli del passato?
«Sì, per esempio la canzone Which Side Are You On?, scritta negli anni Trenta ad Harlan, negli Appalachi, il posto di cui parlo anche nel mio penultimo libro (America profonda, sempre Donzelli), viene cantata in appoggio a Occupy da Ani DiFranco. La canzone racconta che in posti come Harlan non si può essere neutrali, restare equidistanti, perché il conflitto è troppo forte. Ecco, dall’America arrivano belle cose, perché arriva una come Ani DiFranco».
Cosa s’intende con il titolo del libro, Desiderio di altri mondi!
«Io non sono affatto convinto che verrà un mondo in cui non ci saranno più sfruttati e sfruttatori. Anzi, sono assolutamente certo che non c’è mai stato un mondo del genere, ma sarebbe molto bello se ci fosse. E allora anche se pensiamo che forse non ci arriveremo, vale la pena provare comunque ad agire come se potessimo arrivarci, prendendo sul serio l’esperimento di vedere come sarebbe. Questo intendo con Desiderio di altri mondi, più che "un altro mondo è possibile". Anche se non è possibile dobbiamo lavorare in quella direzione».
In un altro passaggio del libro lei, per esemplificare questo concetto, ricorre al protagonista del Grande Gatsby...
«È chiaro che Gatsby non è all’altezza del sogno americano e che Daisy non è all’altezza dell’amore di Gatsby, ma quello che conta è la luce verde che lui intravede nell’oscurità e che nel romanzo finisce per simboleggiare sia lei che l’American dream. Quindi, anche se i nostri sogni non sono stati all’altezza, o noi non siamo stati all’altezza dei nostri sogni, quello che conta è che abbiamo provato a farli. Ci si può stufare dell’oggetto sognato, ma non ci si può stufare dell’attività di sognare».