Franco Capacchione, Rollingstone 28/12/2012 (n°111 gennaio 2013), 28 dicembre 2012
BASTA NON AVER PAURA
«LA PRIMA NOTTE è stata terribile: era fine ottobre, primi novembre. Faceva freddo, era umido. Avevo 1 orecchio poggiato a terra. Sentivo i passi di quelli che camminavano anche a 500 metri. E rumori continui della città. I vigili che ogni mezz’ora venivano a svegliarmi. In una notte anche quattro, cinque volte. Ti fanno alzare, aspettano che tu abbia arrotolato tutto e poi se ne vanno. Tu srotoli di nuovo il sacco a pelo, ti metti giù, il tempo di chiudere gli occhi e tornano un’altra volta. E qualcuno di loro non ti tratta molto bene, perché ti considera un rifiuto». Tutto questo a Milano, in una strada del centro, qualche anno fa. Lo racconta Wainer Molteni che, prima di quella notte, ha già sperimentato il dormitorio pubblico, le mense per poveri, ha chiesto l’elemosina in strada. Ma dormire a cielo aperto è tutta un’altra faccenda. Un uomo senza arte ne parte? Non proprio, come si capisce leggendo il suo libro, Io sono nessuno, pubblicato da Dalai editore («Sei nessuno quando ti scadono i documenti e diventi un clandestino nella tua città»).
Allora, riassunto a volo d’angelo per inquadrare la persona: Wainer cresce nel milanese con i nonni (i genitori, latitanti per motivi politici, vivono all’estero). A 16 anni è dj al Plastic di Milano («Mi piaceva l’acid jazz, ma solo a me, in effetti. Aveva più successo la techno industriale»). Laurea in Cattolica, master alla Normale di Pisa in criminologia («Ero Punico con i dreadlock fino al ginocchio, ma non potevano dirmi niente. Avevo un punteggio altissimo»). Ancora: master .in criminologia forense a Quantico, Virginia, Usa. Poi il ritorno in Italia, un nuovo lavoro come responsabile del personale in una catena di supermercati. Che fallisce. Wainer manda in giro curriculum, ma la risposta è sempre la stessa: «Lei è troppo qualificato per il profilo che stiamo cercando». Allora lo riadatta, gli toglie appeal, lo impoverisce. Ma niente da fare, il lavoro non arriva. Finiscono i soldi, viene sfrattato dalla casa in affitto. Inizia una sorta di vagabondaggio, ma la strada è ancora lontana. E non chiede aiuto a nessuno, non ad amici, non a parenti. «Mi sarei sentito un parassita. Sono cresciuto con i miei nonni, in campagna. Venivano le persone a prendere mezzo vitello e lo pagavano dopo otto mesi. Ma andava bene così. E quando il nonno doveva pagare una bolletta e non aveva soldi, non andava da quelli che glieli dovevano. Lasciava staccare la luce piuttosto. Ho avuto quel tipo di formazione».
Wainer, dunque, va via da Milano, vive quattro anni come un fantasma, occupando una casa a Porto Venere, una meravigliosa villa abbandonata dai proprietari, una coppia di anziani americani. In questo periodo va a Genova per il G8, che riaccende la sua passione antagonista. Poi il rientro a Milano, le notti in un dormitorio che, finito il "piano freddo" (l’apertura, nei mesi invernali, di spazi al coperto per accogliere i senza casa), sarà chiuso. Un vero spreco. Wainer trova incredibile che una struttura dove si potrebbero tenere insieme tante individualità per dar voce a una comunità debba morire per abbandono: «Il 12 maggio 2005 ce stata la prima occupazione del dormitorio, poi altre due, l’ultima di pochi minuti, in realtà. In quel periodo fondiamo "Clochard alla riscossa", ufficialmente un’associazione di volontariato, in realtà un sindacato autonomo che si batte per far valere i diritti fondamentali della Costituzione per i senza tetto. Bros, il writer, aveva disegnato uno striscione scrivendoci "Clochard alla riscossa" e noi abbiamo adottato il motto. In quegli anni, oltre a viale Ortles non c’erano altri dormitori a Milano».
Leggendo il libro, e guardandosi intorno in città, sembra che i senza casa, o "barbafratelli" come li chiama Molteni, siano soprattutto uomini: « Non più, perché sta salendo la percentuale di donne senza domicilio. Soprattutto negli ultimi due anni, ne sono arrivate molte dai Paesi dell’Est per cercare un posto come badante. Quando sono finito in strada, quelle che c’erano erano donne rovinate, con problemi di droga o psichiatrici. Adesso, se le incroci, non le riconosci come senza casa. Guarda che ce ne sono una marea di clochard! Solo a Milano, circa 13 mila, e ti parlo di quelli censiti. Ma ne rimangono fuori molti dal calcolo: l’emigrato clandestino o quello che non vuole lasciarsi identificare perché ha problemi giudiziari. C’è solo un sistema per avere un numero preciso, realistico: la tessera del cittadino. Serve a quantificare le persone che ricorrono al servizio sociale: vai in mensa e passi la tessera, vai al guardaroba e passi la tessera, vai al dormitorio e passi la tessera. Così avresti un numero esatto delle persone senza tetto». Ma molti non la potrebbero considerare come una forma di controllo? «E una forma di controllo, ma abbiamo chiesto che il data-base sia protetto. E uno strumento importante, prima di tutto per sfoltire un po’ di sociale malato, perché hai la possibilità di tenere d’occhio le associazioni, che non sono obbligate a dimostrarti dove vanno i fondi che tu gli hai dato. Perché ce ne sono alcune che fanno molto di più di quello che dovrebbero fare e altre che ci mangiano a tutto spiano». Nel suo libro, infatti, ha parole dure per il terzo settore: parla di associazioni che non lavorano sul reinserimento, ma si limitano all’assistenzialismo: «L’assistenzialismo è necessario in una prima fase, qualcuno che ti dia un piatto di pasta la prima sera che dormi in strada, ma sul lungo periodo è deleterio, diventa un circolo vizioso. Più tempo passi m strada più è difficile venirne fuori. Noi abbiamo fatto partire un servizio guardaroba con più di 200 cambi la settimana e un servizio mensa la domenica sera con oltre 300 pasti distribuiti. Tutto senza soldi. Solo con il passaparola, attraverso Facebook, con la partecipazione attiva dei cittadini. I soldi servono in un secondo momento, per creare percorsi di reinserimento».
Ma quante sono le associazioni che lavorano in questo ambito? «Centinaia. Sia chiaro: la maggior parte fanno più di quello che dovrebbero. Ti faccio solo un nome: SOS Stazione Centrale di Maurizio Rotaris. La maggior parte dei piani freddo sono nati lì. Hanno salvato centinaia di persone. Ci sono invece altre associazioni che, a fronte di 600 mila euro di fondi ricevuti, danno via un pacchetto di biscotti e un bicchiere di tè, tra l’altro forniti dal banco alimentare, neanche comprati».
Clochard alla riscossa rappresenta oggi oltre 500 senza tetto, organizzati in piena autonomia. «Tutto quello che facciamo è deciso collettivamente ed è autosostenibile», spiega Wainer. «Il futuro del sociale, se vuole davvero essere incisivo, deve basarsi sull’autosostenibilità, non sui fondi che quest’anno arrivano e l’anno prossimo saltano per un taglio di bilancio». Ci vuole spirito d’iniziativa e Wainer e soci sono macchine da guerra: «Una coppia di ex imprenditori aveva questa proprietà a Serravalle Pistoiese: un casale di oltre 500 metri quadri con 70 mila mq di terreno, 500 piante d’ulivo, l’orto. Non ce la facevano a seguirla in prima persona e cercavano nel mondo del sociale qualcuno che li aiutasse. Noi abbiamo trovato i soldi per far partire il progetto, paghiamo regolarmente l’affitto e lo scorso giugno abbiamo aperto l’agriturismo. In agosto c’è stato un blitz dei carabinieri: hanno trovato presunte irregolarità che poi si sono rilevate fasulle. Dopo un breve stop, abbiamo riaperto. E per sostenere i costi della campagna, che all’inizio sono ovviamente a fondo perduto, visto che ci metti un po’ a ricavarne i frutti, abbiamo organizzato un mercato dell’usato: vendiamo mobili, 50% del ricavato va al proprietario, 50% a noi. E funziona benissimo. Ci sta portando capitale che reinvestiamo a Longiano». A Longiano, vicino a Cesena, in una magione del 1200 si sta per ripetere l’esperienza di Serravalle, con l’apertura di un altro agriturismo: «E stiamo lavorando a un nuovo progetto: far rinascere un borgo abbandonato a Pontremoli. Di una parte siamo già proprietari grazie a un lascito testamentario. Sarà una comune distribuita in 27 case coloniche. Bellissimo». A questo punto, ti consideri ancora un clochard? «Assolutamente sì. Quando tocchi la strada una volta, resti legato. Ma devi sempre far valere i tuoi diritti, non devi aver paura. Mai».