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 2013  gennaio 07 Lunedì calendario

SE MAIALE, SCIMMIA E BABBUINO IN TRIBUNALE DIVENTANO INSULTI

[Secondo la Cassazione le offese «che evocano gli animali sono denigratorie perché negano dignità all’uomo». Ma paragoni così si fanno dalla preistoria] –
Se dicono di voi che assomi­gliate a una lince o a un’aquila è molto probabile che abbiate una vista fuori dal comune e l’accostamento ai due animali è certamente un complimento. Se il vostro comportamento vie­ne paragonato a quello di una iena, è molto probabile che non abbiate commesso una buona azione. Se qualcuno va dicendo in giro di voi che siete un gufo, la faccenda si compli­ca un tantino, perché questo ra­pace notturno è famoso, nei fu­metti e nella narrativa in genere, per avere doti di saggezza e ri­flessività. Non di meno, nel lin­guaggio moderno la «gufata» si riferisce a chi porta sfiga e lo fa spesso volutamente.
Dipingere un comportamen­to­o una caratteristica anatomi­ca di una persona, paragonan­doli a quello di uno o più anima­li è un esercizio che probabil­mente data dalla comparsa del­l’uomo sulla terra. Un uomo che corre veloce può anche es­sere paragonato a Carl Lewis (forse il più famoso centometri­sta della storia), ma allora Lewis a chi può essere parago­nato? Basta guardare correre un levriere o, ancora meglio un ghepardo e l’accostamento vie­ne naturale, mentre se uno, nel­la corsa, è una frana e si trova a suo agio con un divano è più fa­cile che il termine di paragone sia quello della tartaruga o, per chi ha maggiori conoscenze zo­ologiche, del bradipo.
Pochi giorni orsono, la Cassa­zione ha dato la stura alla sua italica fantasia, formulando una sentenza di quelle che, ogni tanto, insinuano il dubbio che questi alti magistrati si di­vertano un sacco nella loro tor­re eburnea. Questa volta, la Cor­te è stata incaricata di giudicare Giuseppe V. di Castrovillari, il quale, durante un banale liti­gio, ha apostrofato Leonardo B. dandogli del «barbagianni» e del «babbuino». L’uomo, è sta­to assolto in primo grado, ma condannato in appello. La cor­te suprema lo ha giudicato col­pevole con la seguente motiva­zione. «Gli epiteti che evocano gli animali hanno un’obiettiva valenza denigratoria in quan­to, assimilando un essere uma­no a un animale, ne negano qualsiasi dignità in un proces­so di reificazione e di assimila­zione a una res comunemente ritenuta disgustosa o comun­que di disumanizzazione».
Io mi chiedo se questi altissi­mi magistrati abbiano mai visto un barbagianni, almeno in un documentario di Piero Ange­la. Sicuramente si interessano di faccende culturalmente più adeguate al loro lignaggio, ma mi permetto di dire che sbaglia­no. Avessero visto un barbagianni non avrebbero mai con­dannato quell’uomo. Rapace notturno di nobili fattezze, con le penne screziate di un ruggi­ne iridescente, vola silenzioso nella notte da tempo immemo­re, aiutando l’uomo a difende­re i granai da topi e arvicole. I ra­paci notturni d’altronde sono uccelli di sangue blu: l’allocco era nello stemma dei Locatelli bergamaschi, mentre la civetta era il simbolo di Atena.
Il problema è che le sentenze della Cassazione fanno legge. Ora dunque attenti a dire che «mia suocera è una cornac­chia », che «quella è un’oca giuli­va », che uno «si è abbuffato co­me un maiale» e che la punta «ha tirato un rigore da cani».
Avessi saputo della futura sentenza avrei querelato legioni di bambini quando mi dice­vano che ci vedevo «come una talpa», invece di scazzottarmi e prenderle il più delle volte per­ché mi dovevo togliere gli oc­chiali. Penso poi con orrore a Vittorio Sgarbi, quando sentirà il rumore cigolante della porta della cella chiudersi definitiva­mente alle sue spalle per avere proferito quel «Capra, capra, capra… ».