Adriano Favole, la Lettura (Corriere della Sera) 06/01/2013, 6 gennaio 2013
L’UOMO ARTIFICIALE
Oscar Pistorius e Lance Armstrong: come dire il «bene» e il «male». Da una parte l’atleta sudafricano bi-amputato per una malformazione congenita che grazie alle protesi da ghepardo (le chiamano cheetah) corre quanto e più dei normodotati; dall’altra il ciclista texano, capace di trionfare con impressionante regolarità in sette Tour de France consecutivi dopo aver sconfitto un cancro ai testicoli, ma accusato di aver fatto ricorso a sostanze dopanti illecite. Un esempio di perseveranza e coraggio il primo; trickster, ingannatore astuto, il secondo, almeno nella rappresentazione che ne danno oggi i media.
Prescindendo da giudizi etici e da questioni legali, Pistorius e Armstrong appaiono tuttavia legati dal fatto di essere, in campo sportivo, due esempi di quel confine sempre più labile e discusso tra natura e cultura, tra biologia e tecnologia. Fino a che punto può e potrà spingersi la manipolazione del corpo e la costruzione di un uomo sempre più artificiale? Quali implicazioni ha tutto ciò per la nostra concezione dell’essere umano? Sono le domande centrali di un recente saggio di Antonio Marazzi (Uomini, cyborg e robot umanoidi. Antropologia dell’uomo artificiale, Carocci), antropologo culturale con una lunga esperienza di ricerca in Giappone, un osservatorio privilegiato, trattandosi di una società che non solo è all’avanguardia nella bionica e nella robotica, ma che esprime valori culturali in parte differenti rispetto a quell’Occidente di cui pure fa parte. Il saggio di Marazzi ha il difetto di aprirsi a troppi rivoli di ricerca (dalla genetica alle neuroscienze, dai trapianti di organi alle cellule staminali), molti dei quali finiscono per insabbiarsi in una selva bibliografica sempre più ampia e multidisciplinare. Laddove però egli mette a frutto il suo angolo visuale di antropologo culturale e di nipponista, emergono riflessioni e osservazioni originali.
L’«artificialità» dell’essere umano di cui parla Marazzi si può indagare in una duplice direzione: «L’avvicinamento tra uomini e robot avviene dalle due parti: i robot si fanno umanoidi, androidi, gli uomini diventano cyborg, esseri in parte naturali e in parte artificiali». La costruzione dei robot è una faccenda che ovviamente ha a che fare con la scienza e le tecnologie più avanzate, ma risente ugualmente delle condizioni storico-culturali in cui è prodotta. Così, mentre negli Stati Uniti domina la robotica militare e la costruzione di esoscheletri, strutture metalliche in grado di rafforzare, difendere e potenziare il corpo dei soldati, in Giappone la ricerca è orientata al settore dei servizi. Sostituti artificiali di infermieri, badanti, baby-sitter e persino animali domestici appaiono quanto mai importanti per una società che ha una aspettativa di vita molto lunga ed è sostanzialmente chiusa all’immigrazione. Ri-Man, l’umanoide realizzato dal centro di ricerca Riken, è in grado di sollevare un paziente dal suo letto e deporlo su un tavolo operatorio e, a quanto pare, svolge il suo compito con grande delicatezza. Saya è una (ma, ha senso attribuire un genere sessuale a un robot?) cyber-receptionist progettata dall’Università di Tokyo: è in grado di riconoscere le voci e di fornire oltre 700 risposte diverse, assumendo sguardi di gioia, delusione, sorpresa o rabbia. Un altro robot dalle fattezze femminili, Rong Cheng, ha trovato un lavoro stabile come receptionist al museo della scienza di Chengdu, in Cina.
Anche se non sempre ciò si concilia con esigenze pratiche e funzionali, in Giappone la tendenza a costruire robot dalle fattezze umane è molto pronunciata. Ispirare «fiducia» e relazionarsi in modo corretto è un tratto importante del comportamento di un umanoide e la ricerca prova oggi a sviluppare gli aspetti relazionali e connettivi dei robot. Anche questi uomini artificiali, insomma, dovrebbero assumere l’atteggiamento di una «persona» — intesa come essere relazionale — più che di un individuo. E c’è chi ha cominciato a chiedersi quali responsabilità e diritti abbiano questi esseri, se si tratti solo di macchine o di «quasi-persone».
Se i robot si umanizzano, gli uomini si robotizzano. «L’uomo cyborg, provvisto di arti meccanici e di pezzi di ricambio artificiali (…) rappresenta una figura destinata a essere sempre più presente nella realtà della condizione umana contemporanea». La Cyborg anthropology, ispirata ai lavori della femminista americana Donna Haraway, ha messo in luce che il ricorso sempre più massiccio a protesi, organi e artifici nella costruzione e riparazione del corpo umano rende oggi insostenibili molte di quelle dicotomie su cui si è sviluppato il pensiero occidentale, quali uomo/donna, naturale/artificiale, reale/virtuale e persino vita/morte (D. Bell, B. M. Kennedy, The Cybercultures Reader, Routledge). Oggetti come i pacemaker, le anche in titanio, protesi interne in plastica sono oggi molto diffuse: la ricerca si concentra sul potenziamento della sensorialità, sia con la costruzione di organi artificiali sia con la messa a punto di strumenti di interfaccia tra l’organo stesso e il cervello. I progressi delle neuroscienze ci hanno svelato che l’encefalo umano è molto più complesso, dinamico, plastico di quanto si immaginasse: l’idea della riproducibilità dei circuiti neuronali si sta rivelando utopica, e tuttavia certi microchip sono in grado di assicurare connessioni efficaci tra la «volontà» di un soggetto e l’effettivo funzionamento di una mano o di un orecchio bionico. Ancora una volta, come ai tempi di Copernico e di Darwin, si ha la sensazione che l’idea della singolarità e centralità dell’essere umano vacilli: il carattere meticcio dell’uomo non è più soltanto il prodotto di relazioni e scambi tra culture, ma di ibridismi con il mondo animale (si pensi agli esotrapianti di cuore di maiale) e chimico-minerale. Forse è proprio questo ibridismo che affascina e spaventa al tempo stesso, in particolare una società come quella occidentale che si è a lungo affidata (e lo fa tuttora per molti versi) alla tranquillizzante opposizione tra natura e cultura.
Adriano Favole