Michela Murgia, la Stampa 8/1/2013, 8 gennaio 2013
Salvatore Parolisi è stato condannato per l’omicidio di Melania Rea? Dipende dai punti di vista. Certo, in un’ottica giuridica la sentenza contro di lui non è nulla di meno che una condanna all’ergastolo, ma le motivazioni che sono state depositate dal giudice Tommasini raccontano piuttosto la storia di un’assoluzione civile
Salvatore Parolisi è stato condannato per l’omicidio di Melania Rea? Dipende dai punti di vista. Certo, in un’ottica giuridica la sentenza contro di lui non è nulla di meno che una condanna all’ergastolo, ma le motivazioni che sono state depositate dal giudice Tommasini raccontano piuttosto la storia di un’assoluzione civile. Raccontano, perché è questo che le motivazioni alle sentenze devono fare, e lo fanno nello stesso modo in cui lo fanno i romanzi, al punto che alcuni romanzieri italiani tengono appositi corsi ai giudici per insegnare loro a scriverle in modo narrativo. Se dovessimo quindi vederla dal punto di vista letterario, la ricostruzione del caso Rea mostra una trama che lascia interdetti, perché l’omicida vi appare come una figura fragile e deviata, preda di incontrollabili istinti, ma sottomessa e vessata dalla personalità forte di una moglie che lo umiliava di continuo. Melania Rea viene descritta invece come un’Erinni che faceva vivere il marito «in una sorta di sudditanza morale e fisica, già peraltro esistente per il divario economico e culturale ravvisabile tra le rispettive famiglie d’origine». In che modo venire da famiglie di diversa condizione socio-economica dovrebbe determinare sudditanza morale e addirittura fisica tra due coniugi non è per nulla chiaro, ma il giudice lo racconta come se il rapporto fosse logico. Tutte le ipotesi di premeditazione per odio, avidità e desiderio di vivere senza impedimenti un’altra relazione sono venute a cadere in questa nuova narrazione: quello di Parolisi è un «delitto d’impeto», un altro di quei «delitti passionali» che tante aggravanti fanno cadere nei processi per femminicidio. Di passione, intesa come brama sessuale, nella narrazione del giudice Tommasini ce n’è proprio tanta. Pure troppa per essere letterariamente credibile, al punto che viene presentato come verosimile un uomo che si eccita alla vista della moglie occupata in funzioni fisiologiche in un prato e vuole accoppiarsi sul posto a dispetto della figlia minore che poco distante dorme in auto. Ma persino il lettore di gialli di serie B riterrebbe fuori luogo che nel 2013 il rifiuto di Melania Rea ad avere rapporti sessuali in una situazione come quella venga raccontato come «l’ennesima umiliazione» inferta al marito e che l’omicidio feroce che ne è derivato sia motivato come reazione istintiva a un’umana passione respinta con sprezzo. Nella narrazione della sentenza del giudice Tommasini Melania Rea non è morta perché Parolisi la odiava, la tradiva e non sopportava che i soldi in casa li avesse lei. È morta invece perché ha rifiutato di soddisfare le «impellenti esigenze sessuali» di un uomo certamente bugiardo e avido, ma che lei umiliava ripetutamente e che aveva nei suoi confronti un rapporto di «sudditanza fisica e morale». È Melania Rea che è morta, ma nelle motivazioni della sentenza la vittima alla fine è Salvatore Parolisi. Che brutta storia ha scritto, signora giudice.