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 2013  gennaio 07 Lunedì calendario

MAZZETTE, PRIMA INDUSTRIA DI STATO

La fabbrica della corruzione costa 60 miliardi di euro. Ci siamo cascati tutti. Non c’è agenzia, articolo, dossier o post sul tema che non lo ripeta. Ma una delle poche certezze in Italia – non da esserne fieri – che la corruzione nelle pubbliche istituzioni corrisponda al 3% del Pil italiano è semplicemente infondata. Frutto di un calcolo semplicistico, che ha avuto però il merito di suscitare interesse verso quella che è forse la più grande piaga d’Italia. Per trovarne la genesi bisogna tornare al 2004, quando un rapporto della Banca Mondiale stimava il valore delle tangenti pagate a 1 trilione di dollari, il 3% del Pil mondiale, al tempo. Qualcuno, in anni recenti, l’ha rispolverato per quantificare il caso italiano, applicando quella percentuale al Pil nazionale che è appunto pari a 60 miliardi. Ma è una cifra da prendere con le pinze, probabilmente da rivedere al rialzo. E allora, come stanno le cose?
IL PUNTO VERO è che nessuno lo sa, nemmeno i professionisti dell’anti-corruzione impegnati a monitorare il fenomeno. Le relazioni della Corte dei Conti ipotizzano “diversi miliardi” ma le statistiche giudiziarie indicano una contrazione del fenomeno: i delitti di corruzione e concussione sono passati dai 311 del 2009 ai 223 nel 2010, le persone denunciate da 1821 a 1226, i condannati da 341 del 2007 ai 295 del 2008. Per Istat, in dieci anni, i reati sono calati di un terzo, le persone denunciate della metà. Stiamo vincendo la guerra alla corruzione o ci è sfuggita del tutto di mano? Il problema se l’è posto la commissione di esperti voluta da Monti per accompagnare il Ddl anticorruzione approvato lo scorso ottobre. Dopo un anno il gruppo di studio ha prodotto un rapporto di 400 pagine nel quale emergono con chiarezza il peso del “dato oscuro” del fenomeno, connesso alle mancate denunce e ai limiti (anche legislativi) nel contrastarlo. Due scogli, scrivono gli esperti, che si ripercuotono sul cattivo funzionamento degli apparati e dei servizi pubblici, fanno lievitare i costi dei servizi (il 40% nelle grandi opere), condannano grandi e piccole imprese a tassi di crescita rallentati del 25 e del 40%. In ultima istanza, la corruzione “destabilizza le regole dello Stato di diritto e del libero mercato”.
INSOMMA, quei 60 miliardi forse non sono esatti, probabilmente non sono tutti; sicuramente sono l’ostacolo più ingombrante sulla strada per realizzare la nostra democrazia. Il macigno, si sa, cala dall’alto. Trasparency International o il Rating of control of corruption (RCC) della Banca Mondiale indicano per l’Italia un primato netto della politica, agente della corruzione e soggetto deputato a emanare leggi e regolamenti di contrasto che non fa il suo mestiere. Qui sta il nodo, nella peculiare condizione italiana dove la corruzione ha preso posto sugli scranni delle assemble elettive e legislastive nazionali e locali. É la loro inerzia a far dilagare la corruzione nel corpo dell’amministrazione dello Stato, centrale e periferica. Non è un caso che in Italia ci sia voluta una legge ad hoc, contestatissima, per rendere incandidabili i condannati. E non c’è relazione dei magistrati che non invochi il ripristino del falso in bilancio, un rafforzamento della prevenzione, un freno alla prescrizione. Anche i richiami dell’Europa cadono nel vuoto. Nel 2007 l’Italia ha aderito al Gruppo di Stati contro la corruzione istituito dal Consiglio d’Europa che ha emanato 22 raccomandazioni rimaste senza seguito. L’Italia non ha mai ratificato la convenzione penale europea sulla corruzione del 27 gennaio 1999. Sono passati 14 anni, il provvedimento è all’esame della Camera. Magari la prossima.