Vittorio Zucconi, la Repubblica 8/1/2013, 8 gennaio 2013
WASHINGTON
«NEPPURE se campassi 100 anni riuscirei a sapere tutto quello che la Cia fa e sa» disse non uno qualunque, ma l’allora direttore Robert Gates in un’intervista. Anche per chi la dovrebbe guidare e per i presidenti che da decenni tentano invano di trovare un successore stabile a Foster Dulles, il primo e vero “pastore”, l’agenzia ha più segreti di quanti essa stessa conosca.
Tra pochi giorni, il 25 gennaio, “The Agency” subirà anche l’imbarazzo di vedere un proprio funzionario pluridecorato, John Kiriakou, associato a un penitenziario federale, per avere rivelato ai giornali la pratica della tortura dell’acqua, il “waterboarding”. Il primo dipendente della Cia condannato non
per doppiogiochismo, per tradimento, per intelligenza con il nemico. Ma per fuga di notizia. Neppure Daniel Ellsberg, che negli Anni 70 diffuse alla stampa dal Pentagono la verità sconvolgente sulla guerra in Vietnam scritta in un rapporto ultraconfidenziale, fu mai condannato.
Ma la Cia è, dalla sua nascita sui resti dell’Oss, il servizio di
intelligence
creato nella Seconda Guerra Mondiale, la creatura che tutti odiano e della quale tutti hanno bisogno. Il suo rapporto sullo “stato del mondo” è la prima lettura di ogni presidente, da Truman in poi, al risveglio. I suoi direttori, scelti con criteri spesso sciaguratamente politici, variano con il mutare dei venti ideologici. Possono essere marionette politiche, come quel disastroso deputato Porter Goss voluto da Bush e rapidamente esonerato, ammiragli o generalissimi come David Petraeus, demolito dal proprio scandalo amoroso. A volte sono rispettabili professionisti della politica, come Leon Panetta, boss durante l’attacco a Osama, o come George Tenet, che guidava l’agenzia nelle ore angosciose del dopo 9/11. Fu colui che, sotto la pressione furiosa del vice di Bush, Cheney, e della sua gang di neo-con garantì al Presidente che trovare gli arsenali di Saddam in Iraq sarebbe stata «una schiacciata facile».
Quando il nemico era ovvio,
ed era di fatto l’immagine speculare di sé nel palazzaccio della Lubjanka al centro di Mosca, la Cia si muoveva in un mondo in bianco e nero, secondo il principio del «chi non è con noi è
contro di noi», fosse nell’Africa subsahariana o in America Latina.
Colossali errori di valutazione, costati migliaia di vite americane per esempio in Corea, dove
l’agenzia assicurò che i cinesi non sarebbero entrati in guerra, furono il prodotto di questa “tunnel vision”, dell’ossessione per la «minaccia rossa monolitica ». Ma neppure quando dall’universo
alternativo affiorò, nell’agosto del 2001, l’avvertimento che Al Qaeda stava preparando un’aggressione contro una città americana, le fu dato credito. Bush e Rice la ignorarono.
In una capitale dove le agenzie di spionaggio brulicano e tra breve ne nascerà un’altra sotto l’ala del Pentagono, oggi la missione della Cia è soprattutto quella di restare rilevante. La missione non è impossibile, è confusa. Il grande fiume della lotta contro i nemici rossi è divenuto una palude di mille rivoli oltre a quello ovvio dell’antiterrorismo, spionaggio tecnologico, commerciale, economico, industriale, finanziario. I filmoni come
Zero Dark Thirty
che in teoria vorrebbero esaltarne successi quali l’assassinio di Bin Laden si ritorcono contro di essa, scatenando polemiche e smentite sulle torture, ma soprattutto raccontando la ottusità burocratiche di questo ministero oscuro che soltanto la determinazione
di una donna riesce a
smuovere.
La domanda comincia a diventare a che serva oggi la Cia, con gli almeno 50 miliardi di budget e forse 20mila impiegati diretti, cifre soltanto stimate, perché segrete, se non riesce neppure a proteggere i suoi. La tragedia dell’ambasciatore Stevens e degli altri uomini della Cia a Bengasi è stata scaricata dall’opposizione repubblicana nel grembo di Hillary Clinton per ferire Obama. Ma a Washington si sa che Stevens, ferro di lancia dell’operazione per eliminare Gheddafi, era nell’orbita della Cia e l’agguato contro di lui fu un’operazione che le spie americane non seppero anticipare.
L’arrivo, se approvato dal Senato, di un ennesimo direttore per la “ditta”, il settimo in appena dodici anni compresi due capi ad interim dimostra il livello di instabilità e di incertezza attorno alla fortezza sul Potomac, l’unico edificio governativo americano esentato dall’apertura al pubblico. Persino i camerieri e i baristi della caffetteria Starbucks funzionante all’interno del castello sono reclutati e trattati come agenti, passibili di carcere se rivelano anche i più umili segreti. Fu aperta un’inchiesta interna quando si seppe che la bevanda preferita dalle spie era l’ignobile “frappuccino”.