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 2013  gennaio 08 Martedì calendario

RIBELLI DEL PETROLIO NUOVI PIRATI

Tre marittimi napoletani e le loro famiglie hanno passato feste amare. La sera del 23 dicembre, Emiliano Astarita, Salvatore Mastellone e Giuseppe D’Alessio erano a bordo della petroliera Asso 21. La nave aveva lasciato da poco la piattaforma Exxon di Erha Field, a circa 100 chilometri dalla costa nigeriana, e si dirigeva verso il porto franco di Onne, dove arriva la maggior parte del petrolio nigeriano, quando sette persone sono riuscite a salire sul ponte e immobilizzare l’equipaggio. Dopo essere stati derubati, i tre italiani sono stati rapiti insieme a un collega ucraino, mentre la nave è ripartita. Alla vigilia di Natale, l’opinione pubblica italiana ha scoperto che non esiste solo la pirateria nell’Africa orientale. È possibile che la Nigeria sia in procinto di sorpassare i “cugini” somali in termini di pericolosità?
Il Paese dell’Africa occidentale è sempre stato un paradiso per questa particolare industria criminale. Dai dati dell’International Maritime Bureau (Imb), analizzati di recente da Donna Nincic, emerge che nel periodo che va dal 2001 al 2008 sono avvenuti più episodi di pirateria in Nigeria (213) che in Somalia (203). Il 2012 è stato l’anno peggiore per chi si voleva avventurare nel Golfo di Aden a caccia di navi da sequestrare: da luglio a settembre del 2012 solo una imbarcazione è stata presa in ostaggio dai pirati somali, rispetto alle 36 negli stessi mesi dell’anno precedente. Un inviato della agenzia giornalistica Associated Press che ha visitato Hobyo, in Somalia, lo scorso settembre, ha titolato così il suo reportage: “Il party è finito”. I motoscafi che un tempo servivano per gli abbordaggi sono oggi fermi sulla spiaggia, utili solo per gettarvi bottiglie di whisky vuote.
Le prostitute sono partite e le macchine di grossa cilindrata sono state svendute. Chi un tempo solcava i mari terrorizzando gli equipaggi occidentali oggi gioca a carte oppure è tornato a pescare aragoste. I risultati di oggi si fondano su una pressione internazionale senza precedenti. Non vanno però dimenticati gli sforzi del governo locale di Puntland nel combattere la criminalità organizzata. Allo stesso tempo, i clan somali sono impegnati in un processo di riconciliazione nazionale, che ha portato all’approvazione di una nuova costituzione nell’agosto del 2012. È certamente presto per scrivere il necrologio della pirateria somala, ma i successi sono innegabili.
La Nigeria è un Paese molto più ricco della Somalia e soffre di quello che gli economisti chiamano la “maledizione” delle risorse naturali, in questo caso l’oro nero. Appetiti molto difficili da controllare si scatenano per monopolizzare questa ricchezza, producendo corruzione, criminalità e istituzioni statali cronicamente deboli. Paradossalmente, essere ricchi rende i problemi più complessi. Un effetto per la regione del Delta del Niger è l’inquinamento. Secondo un rapporto del 2006, l’area è “uno dei cinque ecosistemi più inquinati al mondo”.
Almeno un milione e mezzo di tonnellate di petrolio vi sono state versate negli ultimi cinquanta anni. Il “Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger” (Mend) combatte armi in pugno lo sfruttamento e la degradazione ambientale causati dalle multinazionali straniere. Dal 2004 il Mend ha distrutto attrezzature e sabotato oleodotti. Una delle loro tecniche preferite è rapire chi lavora per le compagnie petrolifere. Questi attivisti hanno usato in passato motoscafi veloci nelle paludi del Delta per attaccare obiettivi diversi e lontani tra loro in rapida successione. Non è del tutto escluso che anche i tre marittimi napoletani siano vittime di personaggi legati alla guerriglia. Ma le azioni contro l’industria petrolifera non hanno solo scopi nobili. Ogni giorno in Nigeria circa il 10 per cento della produzione di greggio viene rubata da gang di ogni tipo, alcune altamente organizzate e con complicità istituzionali.
Le vittime della pirateria nel Golfo di Guinea non sono solo le multinazionali. Molti episodi riportati nelle statistiche ufficiali si riferiscono ad attacchi contro pescherecci. Questi subiscono furti di motori, di materiale di valore presente a bordo e del pescato giornaliero, oltre a richieste di denaro. In alcuni casi, chi ha opposto resistenza è stato ucciso. Secondo una studiosa del tema, Donna Nincic, questi avvenimenti sono non meno di un centinaio l’anno, ma vengono denunciati di rado, poiché nessuno si fida della polizia locale. Gli attacchi contro le flotte di pescherecci hanno effetti economici devastanti. Diverse migliaia di posti di lavoro sono andati perduti perché i pescatori hanno paura di salpare, e il Paese oggi è un importatore netto di pesce.
Molti italiani lavorano in Nigeria e l’Italia ha significativi interessi commerciali nella zona. Una soluzione di lungo periodo non può consistere nel pagare riscatti per i nostri connazionali rapiti. Solo un governo efficace, in grado di proteggere l’ambiente e l’industria della pesca, e capace di distribuire in maniera più equa i proventi delle ricchezze naturali, potrà essere in grado di combattere la criminalità organizzata. Magari con l’aiuto dei Paesi occidentali. Ma quel giorno è ancora molto lontano.