Attilio Befera, Corriere della Sera 8/1/2013, 8 gennaio 2013
Caro Direttore, un raffinato politologo come Piero Ostellino non può ignorare quale sia la caratteristica comune e inconfondibile di quelli che lui chiama gli «Stati di polizia»
Caro Direttore, un raffinato politologo come Piero Ostellino non può ignorare quale sia la caratteristica comune e inconfondibile di quelli che lui chiama gli «Stati di polizia». La caratteristica è quella dell’assoluta segretezza che ammanta le procedure con cui le autorità di quegli Stati operano. Non mi sembra sia questa la caratteristica che contraddistingue il redditometro dell’Agenzia delle Entrate. Basterebbero già a dimostrarlo le aspre rampogne che Ostellino ha pensato bene di dedicare al nuovo redditometro grazie appunto alla conoscenza piena che lui — come ogni altro contribuente italiano — può avere di come è fatto quello strumento e di come funziona. In estrema sintesi, il nostro redditometro consiste in una procedura informatica che, incrociando banche dati e utilizzando con estrema cautela indicatori di tipo statistico, punta a individuare, con la maggiore attendibilità possibile, il grado di correlazione fra il reddito che emerge dalle dichiarazioni fiscali di un soggetto e la sua capacità di spesa, quale risulta invece dai dati di cui il fisco dispone. Nell’armamentario delle rampogne non poteva ovviamente mancare la solita accusa che il redditometro farebbe parte di una strategia più generale volta a colpire la ricchezza e i suoi simboli (non è facile, peraltro, capire la coerenza fra un’accusa del genere e l’ironia circa il fatto che il nostro redditometro si attarderebbe a censire cose che non sono propriamente indice di ricchezza come il vasellame, i fiori e gli animali domestici posseduti dagli italiani). L’accusa non ha letteralmente senso: il gettito è tanto più alto quanto più i cittadini guadagnano ed è assurdo quindi che il fisco intenda combattere la ricchezza. Semmai è vero il contrario. Benché quindi sia trito e noioso continuare a ripeterlo, la funzione del redditometro è quella di intercettare ipotesi di scostamento assai rilevanti tra il reddito che una persona dichiara al fisco e la capacità di spesa che dimostra invece di avere nei fatti. Ipotesi di scostamento che vanno sottoposte poi a un doppio vaglio procedurale, per accertarne — in contraddittorio con gli interessati — la reale fondatezza. È una tecnica — non l’unica certamente — per individuare casi reali di «spudorata evasione fiscale», per citare un’espressione, a mio avviso assai appropriata, utilizzata dal Capo dello Stato nel suo discorso di fine anno. Quanto poi alla «credibilità internazionale» del nostro Paese, che il nuovo redditometro sarebbe destinato a pregiudicare, vorrei sottolineare che non è certo solo l’Amministrazione finanziaria italiana che ha — nel ventaglio più ampio dei sistemi di accertamento — uno strumento per qualche verso analogo al «redditometro», allo scopo di orientare meglio il controllo fiscale. Per inciso, pare sia particolarmente efficace uno strumento del genere, utilizzato per la ricostruzione del reddito dal temutissimo Irs, l’Agenzia del fisco degli Stati Uniti, Paese che probabilmente anche Ostellino avrebbe qualche ritrosia ad annoverare fra gli stati di polizia fiscale. Quando la nostra Agenzia decise anni addietro di aggiornare il proprio redditometro, modificandone profondamente l’impianto, piuttosto elementare, che risaliva agli inizi degli anni 90, dovemmo prendere una scelta cruciale: se fare come tutti gli altri, e tenere quindi riservata la struttura dello strumento e le sue concrete funzionalità selettive, oppure — come in effetti decidemmo — di imboccare una strada del tutto nuova e rendere interamente pubblica la strumentazione che avremmo costruito, al punto da fornire a ogni singolo contribuente l’opportunità di calcolarne l’impatto sulla propria situazione fiscale, e di farlo con assoluta riservatezza: quella riservatezza che l’Amministrazione ha scelto invece di negare a se stessa. Aggiungerei questa considerazione: la scelta di totale trasparenza che abbiamo fatto consente di sottoporre al vaglio critico della discussione pubblica il redditometro, come esige l’ideale regolativo di «società aperta» così caro ad Ostellino. In questo modo è più agevole individuare eventuali errori o incongruenze dello strumento e migliorarne così progressivamente la funzionalità nell’interesse di tutti, ammesso che sia realmente interesse di tutti contrastare l’evasione fiscale in Italia. Non oso però immaginare il diluvio di improperi che questo implicito richiamo a Karl Popper finirà per attirarmi da parte di chi non potrà che rilevare l’accostamento sacrilego fra un grande campione del liberalismo e una persona come me accusata, per il ruolo istituzionale che sta svolgendo, delle peggiori nefandezze illiberali. Con indiscutibile spericolatezza aviatoria, l’autore dell’articolo va poi in picchiata su alcuni aspetti tecnici del redditometro. Data l’altezza vertiginosa da cui piovono le bombe (la tesi di fondo, se ho ben capito, è che si assisterebbe, con il redditometro dell’Agenzia delle Entrate, a una riedizione del totalitarismo novecentesco, peraltro con oscure commistioni anche con il pauperismo medievale), sarebbe da insopportabili pignoli pretendere dall’articolista un’accurata messa a fuoco dell’obiettivo su cui si avventa la sua micidiale verve polemica. I lettori mi dovranno quindi scusare se abuso della loro pazienza per chiarire qualche dettaglio, con particolare riguardo alla cosiddetta inversione dell’onere della prova, che — stando sempre all’articolista — «ributta l’Italia ai primordi del Diritto». La costruzione del redditometro parte dall’assunto di senso comune che a una determinata spesa sostenuta deve pur corrispondere una fonte di guadagno. Una volta quindi emerso, con l’applicazione del redditometro, un rilevante scostamento (oltre il 20%) tra il reddito dichiarato e le spese sostenute sta poi al contribuente addurre le ragioni che possono comprovare, a suo avviso, questo scostamento. È un tipico caso di barbarie giuridica? Sempre la comune esperienza dimostra che nessuno, più del contribuente stesso, può sapere come stiano effettivamente le cose. Del resto, questa non è certo una novità, ma è un principio che esiste nel nostro ordinamento fiscale dalla riforma tributaria del 1973, nata con l’apporto fondamentale di un grande politico e studioso liberale, qual è stato Bruno Visentini. Semmai la legge recente del 2010 che ha in parte modificato la regolamentazione del redditometro ne ha reso ancora più garantista l’applicazione. Nel nuovo redditometro non è infatti più ammessa la vecchia presunzione che prevedeva l’applicazione di coefficienti di moltiplicazione a pochi beni e servizi (abitazioni, auto, imbarcazioni, aerei, cavalli, collaboratori domestici) al fine di ricostruire il reddito. L’accertamento previsto oggi è invece fondato quasi esclusivamente su dati certi e situazioni di fatto inconfutabili, relativi a un ventaglio assai ampio di voci di spesa, evitando così indebite semplificazioni induttive e riducendo al minimo, entro limiti assai prudenziali, il ricorso a dati relativi a spese medie risultanti dall’indagine annuale Istat sui consumi delle famiglie. In ogni caso il contribuente, prima della quantificazione della pretesa, ovvero dell’accertamento, è chiamato a verificare, in contraddittorio con l’ufficio, la correttezza dei dati contestati, in modo da evitare eventuali errori di quantificazione o imputazione della spesa. Detto ciò, è indubbio, come affermava Stalin, che «la carta sopporta tutto», sicché Ostellino è pienamente libero, nel suo articolo, di apparentare me e i miei collaboratori ad agenti dell’Ovra o della Stasi, ma — già che c’era — non avrebbe dovuto omettere di tirare in ballo anche la Gestapo nazista o la Ghepeù sovietica, giusto per rimarcare la «sconcezza» del decreto che avremmo fatto firmare al ministro Grilli. Per quanto riguarda infine il collegamento che Ostellino fa tra noi dell’Agenzia e il personaggio del dottor Stranamore, sorvolerei. Piero Ostellino — si sa — è una mente lucida del pensiero liberale, e dovrà quindi pur esservi un nesso causale fra il redditometro e la guerra termonucleare, anche se io faccio fatica a coglierlo. Con la moderatezza dei toni — da autentico liberale — e la sottigliezza degli argomenti che lo contraddistinguono, Ostellino saprà però sicuramente spiegarlo a me e ai suoi lettori, e di questo lo ringrazio fin da ora. Attilio Befera direttore dell’Agenzia delle Entrate ————————————————— Caro Befera, il Corriere e Ostellino rispettano il suo lavoro. Lei è stato difeso da questo giornale in più di una occasione. Le critiche, anche dure, in democrazia sono legittime. Se il tasso di suscettibilità che traspare dalla sua lunga lettera è misura della serenità e dell’equilibrio con cui l’Agenzia che autorevolmente presiede opera sul territorio e dialoga con i contribuenti, c’è di che preoccuparsi. (f. de b.)