Vittorio Malagutti, l’Espresso 4/1/2013, 4 gennaio 2013
BANCARIO ADDIO
L’ultima trovata è la mini filiale. Spazi ridotti all’osso, così si risparmia sull’affitto, e due soli dipendenti a disposizione della clientela. Poi c’è il terminalista, un tipo che ha passato la vita al computer per inserire ordini e bonifici, destinato a trasformarsi in consulente assicurativo o finanziario al termine di un minicorso. Ma va per la maggiore anche il broker per mutui e polizze, perennemente a caccia di nuovi contratti per arrontondare uno stipendio non proprio ricchissimo. E questo è solo l’inizio. Ai piani alti della banche stanno facendo grandi sforzi di fantasia, affiancati magari dai soliti consulenti esterni dai compensi milionari.
In effetti, la questione appare complessa. A dir poco. Secondo le analisi più recenti, quasi il 20 per cento dei dipendenti delle banche sono di troppo e vanno in qualche modo ricollocati nell’arco dei prossimi cinque anni. Tradotto in cifre significa oltre 50 mila persone su un totale di circa 300 mila. Per dirla con il linguaggio degli addetti ai lavori: il mondo del credito soffre di una colossale sovraccapacità produttiva. Qualcosa di simile a quello che sta succedendo, per fare un esempio, alla Fiat, dove ormai da anni le fabbriche lavorano a meno della metà del loro potenziale effettivo perché il mercato automobilistico si restringe al ritmo del 15 per cento l’anno.
Il problema, a dire il vero, esisteva già prima della grande crisi finanziaria esplosa nel 2008, ma con la recessione che ha gelato l’economia, e quindi anche l’attività bancaria, tra il 2011 e il 2012 la situazione è ancora peggiorata. Senza contare che nel frattempo si è diffuso sempre di più l’home banking. E se il rapporto banca-cliente passa da Internet è evidente che suonano campane a morto per le tradizionali reti commerciali. In Italia il fenomeno è soltanto agli inizi. I dati più recenti segnalano che nel nostro Paese la quota di operazioni che viaggiano in rete è ancora molto inferiore (addirittura la metà) rispetto, per esempio, a quella registrata in Gran Bretagna e in Francia. Nei prossimi anni, prevedibilmente, il distacco non potrà che diminuire con ulteriori pesanti ricadute sul network degli sportelli.
In altre parole, il fronte delle banche rischia di diventare una delle aree più critiche nella complessiva emergenza lavoro che grava sull’Italia. «Questa situazione non ha precedenti e va affrontata con strumenti nuovi», suona l’allarme Francesco Micheli, il capo del personale di Intesa che è anche responsabile dei rapporti con i sindacati dell’Abi, la Confindustria delle banche. Come dire: hai voglia a darci dentro con i prepensionamenti, fin qui lo strumento più utilizzato per ridimensionare l’esercito dei bancari. E allora c’è poco da fare. Bisogna inventarsi qualcosa, perché di questi tempi il conto economico dei principali istituti concede spazi di manovra davvero ridotti, ridottissimi.
All’Abi predicano il vangelo della flessibilità. Flessibilità di orari e di mansioni. Per esempio: filiali aperte al sabato e fino alle 8 di sera o magari alle 10. Oppure gli sportellisti, i classici addetti d’agenzia, che si adattano a fare un mestiere diverso. Ma anche nel mondo del credito il ritornello che va per la maggiore è quello della produttività, vero e proprio mantra di ogni ristrutturazione aziendale. Sulla scia dell’accordo complessivo siglato dal governo Monti con i sindacati (Cgil esclusa) lo scorso novembre, anche l’Abi punta ad aprire un confronto su questo tema.
Si comincia da subito, forse già a gennaio, a solo un anno di distanza dalla firma dell’ultimo contratto collettivo di lavoro dei bancari. Un accordo che all’epoca da più parti venne definito «epocale» perché introduceva per la prima volta forti dosi di flessibilità nel settore del credito, da sempre considerato un bastione della rigidità e del garantismo vecchia maniera. Nella prossima tornata di negoziati diventerà centrale il tema del salario. I vertici delle banche chiedono l’introduzione sempre più spinta di una parte variabile del compenso stabilita in funzione dei risultati.
I sindacati, però, frenano. «Non c’è chiarezza», attacca Lando Sileoni, segretario generale della Fabi, la più importante sigla autonoma del credito. «I banchieri dice Sileoni ci dovrebbero spiegare che tipo di banca hanno in testa. Qual è il modello distributivo che intendono adottare. Solo quando avremo ricevuto risposte precise su questi punti potremo metterci a discutere di produttività e salari».
L’Abi ribatte e accusa. «Si registra (tra i lavoratori, ndr.) una marcata resistenza, ovvero una scarsa sensibilità al cambiamento, alla riconversione e alla riqualificazione professionale che sono divenuti, invece, imprescindibili». Questo è quanto si legge in un documento di analisi presentato al comitato di presidenza dell’Associazione bancaria. La Confindustria del credito se la prende anche con il costo del lavoro, che, secondo un rapporto diffuso dall’Abi poco prima di Natale, è il più elevato in Europa dopo quello degli istituti tedeschi.
Va detto che l’esplosione della crisi in questi ultimi due anni ha finito per accelerare la trasformazione del sistema. I grandi istituti sono un cantiere sempre aperto e i piani industriali presentati dai vertici dei maggiori istituti si susseguono a breve distanza uno dall’altro, riveduti e corretti in corsa. È il caso di Unicredit e Intesa, costrette a cambiare rotta due volte negli ultimi tre anni. E forse non è ancora finita. Il Banco Popolare, quarta banca nazionale, dovrebbe aggiornare nelle prossime settimane il piano sottoposto a investitori, analisti e lavoratori nel solo 2011. Per non palare del Monte dei Paschi, salvato grazie a un’iniezione di soldi pubblici per oltre 3 miliardi, che è stato costretto a varare un piano d’emergenza che prevede pesanti sacrifici per i dipendenti.
A complicare le cose l’anno scorso è arrivata anche la riforma Fornero delle pensioni. Il problema degli esodati ha costretto le banche a rifare i conti sui prepensionamenti già decisi con un aumento dei costi che ha dovuto in qualche modo essere coperto anche attraverso nuove intese con i sindacati.
L’emergenza numero uno è però quella del conto economico. I margini di redditività si assottigliano sempre di più. La tabella di questa pagina traduce in cifre la rincorsa fin qui vana dei banchieri. Dal 2008, quando è esplosa la crisi finanziaria, l’esercito dei dipendenti dei cinque principali gruppi creditizi italiani si è ridotto di oltre 15 mila unità. Dei quasi 200 mila bancari in servizio quattro anni fa (per Intesa e Unicredit si è tenuto conto delle sole reti commerciali) ne sono rimasti a libro paga 182 mila circa con un calo vicino all’8 per cento. Anche migliaia di sportelli sono stati chiusi o ceduti. Il totale, riferito alle cinque banche maggiori, adesso supera di poco quota 16.300, il 13 per cento in meno rispetto al 2008.
Insomma è difficile negare che negli ultimi anni i tagli di personale hanno già inciso in profondità negli organici dei colossi del credito. Se però diamo un’occhiata all’ultima colonna della tabella di pagina 105, quella che riguarda l’indice cost/income, cioè il rapporto tra costi operativi (compreso quindi il personale) e proventi operativi, notiamo che il dato è peggiorato tra il 2008 e oggi. Come si spiega questo andamento? Semplice: le banche sono riuscite a risparmiare sulle spese di personale ma i proventi sono calati ancora di più. Da qui la diminuzione dell’indice di redditività.
L’area dove si guadagna meno è proprio quella che dà lavoro alla grande maggioranza dei dipendenti. E cioè la rete delle filiali. I profitti veri arrivano, adesso ancora più di un tempo, dall’attività di advisory per le grandi operazioni societarie e dalla vendita di prodotti finanziari, polizze assicurative in testa. Che fare, allora? I banchieri tagliano. In tempi di magra spiegano non vale la pena spingere troppo sul fronte dei nuovi prodotti nel tentativo di aumentare i ricavi. Rischia di essere fatica (e denaro) sprecata. Sembra di sentire Sergio Marchionne. «Se il cavallo non ha sete è inutile dargli da bere». E allora via coi tagli. Ancora.»