Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  gennaio 07 Lunedì calendario

UN GIOCO DA EUROPEI


[MELBOURNE]

Inizia lunedì prossimo lo Australian Open, il più periferico dei cosiddetti Grand Slam, termine derivato dal bridge nel 1936 dal mio defunto collega Allison Danzig. I 4 Slam sono tuttora i più importanti tornei del circuito, i soli sfuggiti ai Sindacati Uomini e Donne (ATP e WTA) e ancor saldamente nella mani della ITF (Federazione internazionale) così come la Coppa Davis. Per continuare simile compitino noto a molti aficionados e certificato dalla competenza dello statistico Marianantoni, mi resta da aggiungere che la vittoria nei 4 tornei Slam, il cosiddetto Grand Slam, non mi appare valido dal 1936 (data del passaggio al professionismo del primo del mondo, Fred Perry) al 1968, quando i tornei vennero aperti (open) a tutti i tennisti, professionisti
e no.
Mentre metto in valigia abitucci in cotone e cappello di paglia — un anno feci friggere un uovo sul fondo del centrale di Melbourne — un amico mi fa rilevare che la magnitudine dello Australian non corrisponde più alla classifica dei
giocatori indigeni, agli aussies, e nemmeno a quella degli yankees. Do un’occhiata alle classifiche, e mi sorprendo io stesso nel notare che nei primi cento i padroni di casa hanno giusto due immigrati, Matosevic e Tomic, numeri 49 e 52, mentre il semiestinto Hewitt è addirittura scivolato all’82. Tra le donne, la 28enne Stosur, già slamizzata a New York nel 2011, è sola soletta, seppure al n.9. Cos’è accaduto agli aussies, paese peraltro tra i primi nel ranking mondiale economico, che molto spesso corrisponde a quello tennistico?
Una delle origini va ricercata nel fatto che il tennis degli inizi (1874) su fino al fatidico 1968, si
svolgesse quasi esclusivamente sui prati britannici, Usa e Dominions inclusi. L’unico giardino a resistere — sinché, dicono i miei amici british ci sarà la Monarchia — è Wimbledon. I campionati d’Australia hanno abbandonato l’erba dello Stadio Kooyong (il Posto delle Anatre) nel 1988, quelli Usa se ne sono andati da Forest
Hills dieci anni prima. Simile cambiamento ha ammesso quasi tutto il resto del mondo, con l’eccezione momentanea dell’Africa, ma non dei suoi figli emigrati, ad un gioco ormai davvero internazionale.
Rivedo le classifiche, e noto, tra gli uomini, la presenza di ben 9 europei su 10 (eccetto Del Potro) e di 74 nei primi cento. Tra le donne troviamo 5 europee e 3 russe nelle dieci, e 61 europee, più 15 russe e simili (kazake) nelle cento. Tutto ciò sottolinea come la pratica del gioco si sia spostata nel vecchio continente, con una viva partecipazione dei paesi dell’Est, sino al crollo del Muro ostacolati da divieti
comunisti. Ma dimentichi gli Stati Uniti, vecchio Clerici, noterà forse il lettore aficionado.
Ecco un altro fenomeno, che non si può imputare soltanto alla scomparsa dei campi in erba, se da cent’anni, sulla costa orientale americana e specie in California, già si giocava sul cemento. Ma vediamo anche il rarefarsi degli yankees. Tra i Cento, dopo il ritiro di Roddick, rimangono solo sei giocatori, dei quali il migliore è Isner, n.14, più noto per la statura (e il match di due giorni giocato a Wimbledon) che per il talento. Tra le donne va meno peggio, soprattutto grazie ai due fenomeni ultratrentenni, le Williams, che valgono certo più della classifica congegnata dal computer: Serena n.3 e Venus n.24. Le americane sono dodici nelle cento, e la maggiore speranza, per cambiare, è nera, Sloane Stephens.
In questo regresso le cause sono più d’una, la prima umanamente positiva, lo studio universitario che impedisce di seguire il
circuito ben prima dei 23-24 anni, come avviene ora per chi non sia americano, e privilegi la racchetta alla cultura. Altra causa è la struttura della società americana, vivamente individuale e certo non affidata a strutture federali, come per esempio accade in Francia, paese al comando nelle presenze statistiche dei maschi. Per concludere un argomento che amplierò nella prossima edizione, la settima, di 500 Anni di Tennis, assistiamo a una sorta di ribaltamento del tennis, forse in ritardo su quello economico del mondo.
L’Europa, che ha ritardato colpevolmente di divenire un solo paese, si ritrova sì in vantaggio, ma la Russia e i paesi dell’Est estremo appaiono pronti a invaderla, per fortuna con i tennisti. Mentre non tarderà a lungo l’arrivo della Cina, e di altri paesi asiatici emergenti. Già si è segnalata, la Cina, nell’organizzazione dei Master a Shanghai, e dell’Olimpiade. Ma quel che mi ha maggiormente impressionato è stata una frasetta di Li-Na, vincitrice al Roland Garros: «Per ora siamo 25 milioni di tennisti». Attendo un Grand Slam cinese.