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 2013  gennaio 07 Lunedì calendario

ADDIO A LUIGI SPAVENTA L’ECONOMISTA-GENTILUOMO CHE SFIDÒ IL CAVALIERE


SE NE è andato un grande economista.
Uno dei più grandi. Ma anche un uomo appassionato e rigoroso, servitore dello Stato che non si è tirato indietro quando nei primi anni Novanta l’Italia rischiò di essere travolta da una delle più micidiali crisi finanziarie della sua storia. Luigi Spaventa fu allora ministro del Bilancio di quel governo Ciampi che ci risollevò dal baratro riavvicinandoci all’Europa. E subito dopo fu uno dei primi a individuare il pericolo berlusconiano e a sfidare lo stesso Cavaliere nelle elezioni del ’94, sapendo che sarebbe stata un’impresa difficilissima, quasi disperata.
Passione e ironia. Tanta ironia che non di rado lo spingeva alla battuta feroce, ma anche ad un divertente understatement nel giudizio sui grandi progetti, sulle grandi avventure economiche e politiche. Come quella del primo piano quinquennale, sotto il neonato centrosinistra anni Sessanta.

A LUI e a Paolo Sylos Labini, entrambi consulenti alla Programmazione di Antonio Giolitti, la parola “piano” , così ambiziosa così solenne, dava un po’ fastidio. Decisero quindi che almeno tra di loro l’avrebbero chiamato “pianino”. Lo stesso nomignolo che qualche anno prima Spaventa aveva dato insieme a un altro grande economista, Giorgio Fuà, all’impresa dell’Eni di Enrico Mattei: la sfida alle Sette Sorelle, la battaglia per l’autonomia energetica nazionale. Spaventa era uno dei più ascoltati consulenti dell’Eni. Li chiamavano “i ragazzi di via Tevere” (sede iniziale del gruppo a Roma), o anche i “marxisti-leninisti”. C’era una stretta continuità tra le due imprese, la speranza di poter indirizzare lo sviluppo economico tagliando le unghie ai grandi oligopoli, interni ed esterni, l’idea che senza una programmazione il mercato avrebbe generato mostri e acuito disuguaglianze.
Ecco, questo legame tra l’attività scientifica e accademica e l’impegno politico in una sinistra riformista e moderna non si spezzerà mai durante tutta la sua vita. E’ un filo rosso che lega gli scritti e le lezioni di economica politica alla non breve parentesi parlamentare (dal ‘76 all’83 come indipendente di sinistra), che attraversa l’impegno come ministro del Bilancio nel ’93 e la rigorosa guida della Consob nel ’98. Che traspare dalle lucide analisi dei suoi articoli su Repubblica.
Di Spaventa si può certamente dire quello che lui stesso scrisse in ricordo di Paolo Sylos Labini, pochi giorni dopo la sua morte: «Non sopportava l’opportunismo perbenista ed era ragionato nemico di monopolisti protetti e di piccoli e grandi percettori di rendite private garantite dal potere pubblico. Da onesto riformista, come si definiva, passò tanto tempo a cercare problemi specifici a cui proporre specifiche soluzioni».
Lontano dalle ideologie fredde, dai facili schematismi, incline a una visione pragmatica
ma costantemente attraversata dalle forti idealità ereditate dalla tradizione keynesiana sul piano economico, e dalla sinistra riformista su quello politico.
Spaventa era un uomo brillante, spiritoso. Ostentava anche una certa durezza anglosassone
dietro la quale si celava, neanche troppo, una grandissima umanità. E forse non è un caso che il suo cane Dobermann, che lui avrebbe voluto temibile e agguerrito, era in realtà di una bontà smisurata. “Dobermann” era anche l’appellativo che gli aveva dato chi
non lo conosceva affatto, chi si era fermato all’apparenza di un uomo tutto d’un pezzo, pronto alla critica sarcastica. Lui in realtà si rimetteva continuamente in gioco, dalle aule della Sapienza alle bancarelle di Piazza Vittorio a Roma, dove cercava di convincere gli elettori
a non cedere alle sirene berlusconiane. Amava insomma sfidarsi in campi diversi. Anche in montagna, nelle sue Dolomiti bellunesi, da buon scalatore.
Ieri nel suo studio, accanto alla sua collezione di pipe, ai suoi cd di musica classica, ai suoi libri antichi, c’erano in un block notes alcuni appunti in inglese di economia. L’ultima crisi lo aveva stimolato a cercare cosa non andasse più nelle previsioni degli economisti. «Criticarli – scriveva qualche tempo fa sulla voce.info – è diventato uno sport di moda. Ma se alcune critiche possono essere dismesse perché irrilevanti o intellettualmente volgari, ci si deve chiedere se vi siano responsabilità più serie... L’umore prevalente sembra essere che continuare come se nulla fosse accaduto sia la migliore risposta alle critiche. Eppure è innegabile che questa crisi solleva seri problemi per la
professione. I segnali di allarme sono stati ignorati». Ecco, Luigi Spaventa era uno di quegli economisti che quei segnali li avevano capiti in tempo, decifrati e denunciati pubblicamente. Perché non aveva creduto alla neutralità delle variabili finanziarie, alla grande illusione di mercati che si autoregolano, non aveva sottovalutato i pericoli delle bolle immobiliari, degli sbalzi improvvisi di liquidità, del potere distruttivo della leva finanziaria. Tutti questi rischi non entravano nei moderni modelli macroeconomici, venivano scansati dal pensiero unico liberista. E così molti economisti non hanno aiutato politici e regolatori a tenere la guardia alta, a diffidare del nuovo “laissez faire”. Anche per questo la scomparsa di Luigi Spaventa lascia un vuoto incolmabile nel panorama economico e politico italiano e priva la ricerca di una preziosissima voce critica.
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