Ernesto Ferrero, La Stampa 6/1/2013, 6 gennaio 2013
FELICI I TEMPI IN CUI L’UVA BISOGNAVA DIPINGERLA
[Così nell’800 si studiavano i vitigni con acquerelli, tempere e incisioni: le splendide tavole dell’ Ampelografia universale] –
Osservava Leonardo che «molta felicità sia agli homini che nascono dove si trovano i vini buoni». Sembra quasi enunciare una sorta di legge del chilometro zero: meglio consumare i vini là dove si producono, sconsigliato farli viaggiare. Grande invece è la mobilità dei vitigni da cui i vini provengono. Tracciare la mappa dei loro movimenti è un po’ ricostruire una storia secolare di scambi, incroci, sperimentazioni, tecniche, malattie, cambiamenti, legati alle variabili ambientali. Sono centinaia, i vitigni sparsi per l’Europa e il mondo, e noi ci riduciamo a conoscerne (molto superficialmente) i pochi più famosi. La biodiversità, sempre più minacciata, e i suoi tesori restano l’ultima delle nostre curiosità e preoccupazioni. Anche per questo ci stiamo appiattendo in ogni campo su una omologazione al ribasso che promette soltanto disastri.
Il preambolo per dire quale bella sorpresa siano i tre grossi volumi di una Ampelografia universale storica illustrata , realizzata coraggiosamente da L’Artistica Editrice di Savigliano con la collaborazione del Centro di Studi Piemontesi (testo inglese a fronte, pp. 1.500, € 420), che segue di poco il fascinoso album in cui i Fratelli Roda, i giardinieri di Carlo Alberto, avevano classificato e illustrato di loro propria mano 169 cultivar, oggi dimenticate, di mele, pere, pesche, susine, fragole. L’Ampelografia è la scienza che studia i vitigni. Felici i tempi in cui per documentare visivamente una specie bisognava dipingerla, diventare artisti, come i Roda, o ricorrere ai pittori.
Siano acquerelli, tempere o incisioni con la tecnica della cromolitografia, molto diffusa nell’Ottocento, l’effetto è quello che producono i veri ritratti. Laddove la fotografia può riuscire vagamente funeraria o addirittura pornografica (come certe foto di piatti troppo elaborati e ammiccanti), il disegno è insuperabile nel rendere l’anima, il carattere, vorrei dire la personalità dei ritrattati attraverso i dettagli che li rendono veri anche poeticamente: imperfezioni, macchie, sfumature, il brillìo degli acini in favore di luce, gli arabeschi delle foglie, un’ape golosa che passa di lì, insomma i segni della realtà com’è per davvero. Ci si commuove come davanti al ritratto di certi antenati a contemplare la severa livrea blu-viola del Nebbiolo, il biondo acceso del Vermentino, il rosso tizianesco del Moscato di Madera.
Sono ben 551 le splendide tavole a colori in formato originale, provenienti da tre grandi raccolte storiche. La più antica è la sezione dedicata alla vite della Pomona italiana (1817-1839) del dotto e affabile conte Giorgio Gallesio da Finalborgo. Poi l’ Ampelografia italiana pubblicata dal nostro ministero dell’Agricoltura nel 1882 (che non è andata oltre 28 vitigni per mancanza di fondi: già allora…). Piatto forte, l’ampia scelta della monumentale Ampélographie in sette volumi dei francesi Viala e Vermorel (1901-1910).
C’erano precise ragioni pratiche, alla base di queste imprese mirabili sotto il profilo scientifico e artistico. Occorreva uno studio esatto dei vitigni per migliorare la produzione e combattere le disastrose malattie della vite che arrivavano dagli Stati Uniti: oidio, peronospora, fillossera, black rot. Le schede che accompagnano le tavole (a cura di studiosi autorevoli quali Anna Schneider, Giusi Mainardi, Stefano Raimondi) vanno al di là di una funzione di servizio e si offrono come una miniera di notizie e curiosità anche per non enologi. A partire dalla raffica dei sinonimi: il Trebbiano caro ai poeti toscani del ’500 e a papa Paolo III Farnese diventa in Italia Biancame, Albano, Procanico, Buriano, Santoro, e in Francia Clairette, Espagnolet, Boua, Gredelin, Chator, Cadillac, Saint-Emilion…
Il Sangiovese romagnolo nasce come San Gioveto, ma nel Chianti senese è noto come Prugnolo e Brunello. A Montepulciano si fa Morellino, ad Arezzo addirittura Calabrese. Frequenti le dispute sui luoghi d’origine. Se è chiaro che il Muscat d’Alexandrie viene dall’Africa araba, essendo anche noto come Zibibbu (da capo Zibibb), il Pinot a bacca nera sembra arrivare dalla Borgogna, ma è già minutamente descritto dal latino Columella. Il Merlot, che a noi pare più veneto di un piatto di polenta e baccalà, viene dato come originario di Bordeaux a metà Ottocento.
Ritroviamo con allegria «l’eccellente Marzemino» o Berzemino dei colli trentini e friulani, caro a Da Ponte e Mozart; ci inteneriamo davanti a cultivar dimenticate dai nomi gozzaniani (Claretta di Nizza, Collorino, Crovino, Lagrima dolce, Rossana, Salamanna, Balsamina, Mammolo, Sommariello, Bombino, Cataratto, Monica…). Ci stupiamo di fonte a veri e propri «mostri», freaks come la Vite di Bizzarria dagli eleganti acini bicolori, che sembrano disegnati da uno stilista in vena di provocazioni («un mistero della concezione», la definisce il Gallesio). Il mondo della vite diventa un castello dei destini incrociati, un labirinto in cui è bello perdersi. Ancora una volta, il vero romanzo finiscono per scriverlo i tecnici, gli sperimentatori, i ricercatori, gli uomini dagli strumenti freddi e dalle passioni calde.