Stefano Scalich, Domenicale, ilSole24Ore 6/1/2013, 6 gennaio 2013
FAME DA LUPI? CUCINATE ANCHE I LUPI
[Il ricettario più amato dalla rivista «Time», tanto da metterlo nei cento libri americani di non fiction di sempre è un manuale ironico e curioso del 1942: tempo di guerra e austerity
L’autrice, Mary F. Kennedy Fisher, era un’attivista femminista e coltivava un sano umorismo. «How to Cook a Wolf» è un gioiello] –
Il ricettario più amato da «Time» è figlio della Seconda guerra mondiale, un concentrato di ironia che insegna a conservare il sorriso anche in tempi di austerity. «L’arte di mangiare è uno dei tanti trucchi impiegati dall’uomo per fuggire dalla realtà». Benvenuti dentro How to cook a wolf: l’unico testo di cucina che «la prestigiosa rivista americana annoveri tra i cento migliori titoli di nonfiction»; dunque non stupisce che per John Updike la sua autrice sia una poetessa degli appetiti e che Wystan Hugh Auden la ritenga addirittura la miglior prosatrice americana.
Lei è Mary Frances Kennedy Fisher e il suo libro oltrepassa i confini del semplice ricettario: è piuttosto un concentrato di sarcasmo (la crema Vichyssoise è un «vudù gastronomico») e di vita vissuta («contro la sbornia l’uovo non ha rivali») ma sempre con un occhio al budget («l’osso è un termoconduttore, si risparmiano sei minuti di gas per ogni libbra di carne»).
How to cook a wolf è l’autoritratto di quella Seconda guerra mondiale quand’eravamo tutti povera gente e l’appetito, per dirla con Shakespeare, un lupo universale. Da affrontare a viso aperto facendo di necessità virtù perché, come recitano i titoli di altrettanti capitoli, quel lupo si cattura, si farcisce, si adesca e persino si beve. Non è un caso che tra i cugini più prossimi di quest’opera figurino due capolavori attraversati dalla medesima fame nera: Furore di John Steinbeck (1939) e Sia lode ora a uomini di fama di James Agee (1941); a entrambi però manca l’ironica zampata che è il vero marchio di fabbrica in How to cook a wolf. È sufficiente sentire come la Fisher descrive il budino («un nulla informe sbattuto su un piatto») o l’unica alternativa alle polpette di cui abbia avuto mai notizia: «Narrano alcuni fidati esploratori che, lungo le rive dell’Orinoco, gli indigeni del Sudamerica non si limitino a mettere nella minestra certe particolarissime palline di fango, pare che le ritengano anzichenò gustose».
Per non parlare degli effetti magici che avrebbe il purè, specialmente quello di tapioca: «Potrete fingere con assoluta semplicità di catapultarvi indietro nel tempo, in qualche pensioncina svizzera a due stelle, davanti a tre donnette inglesi in avanzato stato di zitellaggine intente a centellinare un digestivo mentre voi tentate di non origliare gli austriaci in luna di miele alle vostre spalle». E che dire delle casseruole? «Mi ricordano tanto San Valentino e quando ospitano un bel galletto sono un ottimo stratagemma per domandare "Ti fidanzeresti con me?"». Persino una pratica di routine come far bollire l’acqua si trasforma in occasione per sorridere, del resto non tutte le massaie americane sanno riconoscere quando il liquido raggiunge i fatidici 212 gradi Fahrenheit.
Ecco allora una soluzione più cinematografica: «Quando pare pronta a saltar fuori dal bollitore, produce un suono più roccioso che non mormorante e inizia a spruzzare un bel po’ di vapore. ... A questo punto, vertice di urlo e furore, è pronta per essere usata. ... In questo e in nessun altro istante versatela nella teiera». Ma attenzione al colpo di scena, perché anche Mary Fisher sa di non essere sempre una cima: rea confessa, ammette di cucinare uova fritte del tutto disgustose «con bordi che somigliano a una specie di pizzo sporco, stirato male» e un sapore «in parte simile a zolfo e in parte a un giornale bruciacchiato».
Se però avete scambiato How to cook a wolf per il manuale delle brave casalinghe, è arrivato il momento di indugiare sulle primissime pagine del libro. Perché lì il lato femminista ha la meglio e consiglia a ogni lettrice di non farsi ingannare dalle «solenni esortazioni delle "rubriche di cucina" di certe riviste patinate». In fondo «a quante donne», si chiede sempre la Fisher criticando la stampa rosa più frivola, «interessa davvero sapere "Come si lucida la testata in ottone del letto" (Oltre che per attaccare discorso alle feste)?». In quelle parole c’è una ruvida schiettezza da attivista. La stessa che faceva scrivere alla poetessa Charlotte Perkins Gilman: «Si sente guaire sulle soglie / Si sente graffiare sui pavimenti / Al lavoro! Al lavoro! Per l’amor del cielo! Il lupo è alle porte!».
Forse non è un caso che i versi della Gilman fossero comparsi in un’antologia di letteratura impegnata a cura di quell’Upton Sinclair noto per La giungla, romanzo verità ambientato nei mercati del bestiame e dunque degno precursore del legame alimentazione-società così cruciale in How to cook a wolf. Legame sancito fin dal primo paragrafo dove Mary Fisher dichiara che «molte cose sono sbagliate in questi nostri anni e possono, devono essere cambiate». Prima fra tutte la cosiddetta dieta bilanciata, suddivisa in tre pasti tanto rituali quanto monotoni. «Bilanciate tutta la giornata, non i singoli pasti» è lo slogan rivoluzionario della Fisher, che non lesina lodi alle classi poco abbienti: costrette sì a mangiare pietanze meno abbondanti rispetto ai "riccastri", ma per fortuna anche «meno adulterate, meno disoneste». E alla sua austerity non sfuggono né «gli esperti del governo» che avrebbero spinto le donne a infornare la carne a 300 gradi, né i biochimici che favoleggerebbero diete sane senza pesce, né soprattutto gli alimenti vitaminizzati che anzi la fanno esclamare: «Per l’ennesima volta lo snobismo di classe ha sconfitto il buonsenso». Parola chiave, quest’ultima. Non a caso How to cook a wolf auspica che il secondo conflitto mondiale quantomeno aiuti i popoli a riscoprire le care vecchie usanze, per esempio la panificazione che «non richiede doti chiropratiche, yoga o ore di meditazione in chissà quale tempio» o le patate, che «sono tra le ultime cose a scomparire in tempo di guerra e a maggior ragione non si dovrebbero dimenticare anche in tempo di pace»; l’unica amara certezza (e forse non solo per la Fisher) è che «una costata sfrigolante rappresenta più un lusso che una necessità». Allora meglio dirottare l’appetito sui classici della cosiddetta cucina povera. Tra questi figurano due sempreverdi dei nostri menù come la polenta «eterna sovrana della tavola che sopravvive per la sua semplicità» e il minestrone capace di saziare senza altri contorni: «Nessuno mangerà altro, quella sera. Risparmiate le tartine per serate più magre e affamate».
Forse come quelle che Mary Fisher ricorda quando racconta l’infanzia dell’amica Sue: pasteggiava a lume di candela, ma solo perché non poteva permettersi l’elettricità. Sue abitava sull’oceano, mangiava zuppe con bacche, alghe e foglie di cactus che lei stessa andava raccogliendo di notte «eppure fu l’unica a non accorgersi mai di quanto fossero strambe e romantiche le sue cene». Il motivo? Sue sapeva cucinarle «per sé oppure per una dozzina di amici, ma sempre con la certezza di essere nel giusto» e così facendo era l’esempio vivente della frase che intitola il capitolo 9: «Come mantenere il sorriso anche nelle ristrettezze». Un’ulteriore (e in fondo onesta) dimostrazione arriva nel capitolo finale, che invece insegna «Come fare veramente economia» perché in quelle ultime pagine Mary Frances Kennedy Fisher passa in rassegna ingredienti davvero off limits in tempo di guerra: paté di gamberetti, poulet a la mode de beaune e frutta ai sette liquori di certo non sono ricette praticabili, nel 1942, ma restano pur sempre validissime scuse per dire al lettore «chiudi gli occhi davanti ai titoli dei giornali e le orecchie davanti alle sirene e alle minacce degli esplosivi e goditi, invece, le dolci e nostalgiche porzioni di queste ricette, tanto impossibili quanto soavi». Quella sì che è fiction.