Fulvio Irace, Domenicale, ilSole24Ore 6/1/2013, 6 gennaio 2013
PIANO: «PENSO A RICERCA E SALUTE»
[Il grande architetto è impegnato nella riflessione sulla centralità della scienza e concentrato sulla progettazione di edifici a Milano, New York e in Africa legati alla cura
L’idea di quasi tutti i suoi edifici di carattere collettivo è quella di disegnare il piano terra come un common ground, un luogo di transito e di mescolanza] –
Sul tavolo di lavoro di Renzo Piano ci sono al momento tre dossier particolarmente "pesanti": «Tre progetti - spiega- che affrontano un tema su cui sinora non si è riflettuto abbastanza o forse non con la necessaria concentrazione: il tema della medicina nella sua duplice dimensione di ricerca e di cura. Nell’impegno della medicina gli aspetti più tecnici della scienza si sommano con quelli più umani. Ciascuno dei tre progetti affronta questi aspetti a scala diversa e in luoghi diversi a New York, il Mind & Brain Beaviour nel recinto della Columbia University; a Milano la Città della salute nell’ex area Falk di Sesto San Giovanni e in Uganda, sulle sponde del lago Vittoria, un piccolissimo centro pediatrico per Emergency di Gino Strada».
Disegni, diagrammi, schizzi "parlanti" tracciati con l’immancabile pennarello verde passano di mano in mano, tra assistenti e collaboratori, impegnati a sviluppare le varie fasi di cantieri che vedranno la luce solo tra diversi anni (nel 2016 quelli di Sesto e di New York; quando ci saranno i fondi quello africano) ma che in realtà hanno radici in un impegno lontano nel tempo: negli anni 70 per il centro pediatrico che rimanda all’esperienza i unità ospedaliera progettata con Rogers per l’Association for Rural Aids in Medicine. Nel 2000 per la Città della salute, che riprende il programma varato da Umberto Veronesi nel breve periodo in cui è stato ministro della Sanità e tradotto da Piano nello studio di un modello di ospedale da applicarsi, con opportune variazioni e adattamenti, in tutta Italia.
«Se non rischiassi di apparire retorico - aggiunge però Piano - direi che le origini mi sembra che vadano trovate negli anni in cui da studente a Milano mi capitò la fortuna di assistere a una rappresentazione di Vita di Galileo di Bertold Brecht al Piccolo Teatro: mi sembrò subito uno straordinario documento di fiducia nella scienza, nella capacità di Galileo di comprendere i misteri dell’universo, offrendone una chiave di lettura per tutti e non per pochi. C’è una frase bellissima che Brecht mette in bocca a Galileo e che spiega molto bene il fine della scienza e la sua utilità per la società: "Non credo che la scienza possa proporsi altro scopo che quello di alleviare la fatica dell’esistenza umana". Penso alla scienza come una forma di fede laica, una maniera di promuovere il benessere della società anche quando, come nel caso del Greene Center della Columbia University, si concentra in maniera specialistica sul tema della ricerca sofisticata, i cui effetti però hanno sempre lo scopo di contribuire a migliorare la conoscenza del cervello umano e di studiare nuovi e più efficaci sistemi di cura».
Lee Bollinger, il presidente di Columbia, ha più volte dichiarato che il nuovo edificio cui sta lavorando Piano sulla 125strada a Manhattan, dovrà riflettere sulla nozione che lo studio scientifico del cervello e dei suoi comportamenti ha legami assai stretti con altri campi di ricerca: «è un motore di attività intellettuale che deve raggiungere ogni singola area di studio e di insegnamento, in grado di colmare la distanza tra scienza e biologia da una parte e comportamento sociale dall’altro». Se gli economisti che lavoreranno fianco a fianco con i ricercatori medici nello stesso edificio studieranno i modi in cui il cervello usa le informazioni economiche per prendere decisioni, gli artisti contribuiranno a sperimentare forme alternative di conoscenza e i filosofi a mettere fuoco le implicazioni morali dei vari comportamenti: il neuro scienziato Thomas Jessel è convinto che proprio questo tipo di convergenza di saperi diversi aiuterà a comprendere con più efficacia e precisione il carico neurologico dei malati di Alzheimer e di Parkinson.
«Quello che mi spinge ad accettare un progetto - dice Piano - è la sua possibilità di far nascere un’architettura che sia innanzitutto un luogo civico, un punto di incontro: delle persone tra di loro, innanzitutto, ma anche delle più diverse discipline anche, a titolo diverso e con differenti modalità, affrontano il tema del conoscere e del divulgare. Da un punto di vista architettonico, questo si traduce in un’idea fissa di quasi tutti miei progetti di carattere collettivo: sollevare le funzioni specialistiche o di riposo a otto, dieci metri sopra al suolo e disegnare il piano terra come una common ground, come un luogo di transito e di mescolanza, come uno spazio ibrido capace di incoraggiare scambi e conversazioni tra i vari occupanti dell’edificio e tra questi e la città tutt’attorno».
All’estremo opposto del laboratorio americano, il piccolo progetto per i sessanta bambini africani di Emergency rappresenta la conversione sociale e umanitaria dei progressi della ricerca scientifica. «Qui prevale la dimensione applicativa della scienza del curare: il problema non è tanto sperimentare nuovi farmaci e studiare a livello sofisticati i gradi della malattia, ma quello primario di intervenire e salvare. Sarà una costruzione bassa a un solo piano, dove l’eccellenza degli strumenti di cura bilanciano la povertà di mezzi costruttivi».
Il terzo progetto - il polo ospedaliero di Sesto - concentrando in un’unica area due eccellenze della medicina lombarda (l’istituto dei tumori e il neurologico Besta) è l’anello di congiunzione tra ricerca e cura. Per Piano la ripresa del lavoro con Veronesi: «l’ospedale come luogo per la gente dove si celebra il rito laico della tolleranza e della condivisione. È significativo che questo luogo possa essere Sesto san Giovanni, cioè la Grande Milano: al posto dello spazio vuoto di una fabbrica abbandonata del secolo scorso, la "fabbrica bianca" del nuovo secolo. La fabbrica della salute, che pone al centro la fragilità dell’uomo nel momento della malattia e offre alla sofferenza quella dignità della persona, troppo spesso sacrificata dagli ospedali afflitti da gigantismo, indipendentemente dalla loro architettura. Anche qui tutto comunica a piano terra: la città e il parco si insinuano sotto le degenze che sono sospese al suolo e non più alte di tre piani. L’ospedale dell’800 aveva creato un modello dignitoso, ma oggi insostenibile: quello a padiglioni isolati nel verde. Per ridurre gli sprechi, il razionalismo ha proposto il modello monoblocco che unifica le funzioni e produce ecomomie: ma avvilisce il senso della privacy e dell’individualità, creando strutture disumane per la loro dimensione. Mi piacerebbe che il master plan per il futuro centro combinasse il meglio delle due proposte: sotto terra, i laboratori, le sale chirurgiche, insomma la macchina ospedaliera. Il piano terra fluido punto di incontro e di primo impatto con la realtà della malattia e della cura; al piano superiore la tranquillità delle stanze raggruppate per piccoli blocchi intervallati da un cortile a verde. L’ospedale ha circa 700 posti letto ma prevede la possibilità di ospitare piccoli nuclei di familiari, che sono una risorsa e non un disturbo. Ci siamo concentrati sulla tipologia di queste stanze a due letti, mettendo al centro il malato e il suo desiderio di speranza. Ogni camera ha una piccola finestra sporgente sul parco, dove è sistemato anche un tavolo per mangiare, perché non c’è niente di più orrendo che consumare il pasto davanti a un muro. Anche dal letto si gode la vista sul verde: sugli alberi d’alto fusto, ma anche sugli orti e sul verde terapeutico che oggi sappiano essere parte integrante del processo di cura. La mia idea è che il verde possa funzionare come metafora di guarigione: un’idea romantica, forse, ma avallata dalla ricerca scientifica che ne ha dimostrato l’efficacia sulla psicologia del malato».