Marco Fortis, ilSole24Ore 6/1/2013, 6 gennaio 2013
GLI EQUIVOCI SUL DEBITO
Per capire e curare la crisi finanziaria odierna appare sempre più necessario partire da un check up completo della situazione debitoria dei singoli Paesi: analizzare insieme diversi indicatori e non più soltanto il termometro "spuntato" del rapporto debito pubblico/Pil. Ciò al fine di poter diagnosticare più correttamente le malattie e prescrivere a ciascuna economia la medicina adatta, possibilmente evitando quegli eccessi di rigore che in alcuni casi, come per l’Italia, hanno determinato recessioni troppo profonde a causa di "salassi" controproducenti, per usare le parole del premio Nobel Paul Krugman. Noi italiani avremmo tutto l’interesse a sviluppare una più articolata batteria di indicatori della stabilità finanziaria delle nazioni. Non per ridurre da un punto di vista psicologico e nei fatti il nostro impegno a combattere il debito dello Stato comunque troppo alto che ci affligge storicamente. Ma perlomeno per negoziare meglio con l’Europa e gli organismi internazionali, stando in Europa e non fuori di essa come vorrebbero certe posizioni populiste, le modalità con cui l’Italia dovrebbe impegnarsi per realizzare un piano appropriato di stabilizzazione delle sue finanze pubbliche. Senza, nello stesso tempo, penalizzare troppo la propria economia reale. Innanzitutto sarebbe utile mettere in evidenza che i tempi sono molto cambiati. Non è più solo l’Italia a battere tutti i mesi con cifre sempre più alte il record del debito. Tutti lo fanno, dalla Germania alla Francia, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna. Venti anni fa, nel 1994, il nostro debito pubblico era effettivamente di 200 miliardi di euro più alto di quello tedesco, quasi il doppio di quello francese e due volte e mezza più grande di quello britannico. Invece nel 2013 secondo la Commissione Europea, la Germania avrà un debito pubblico di 2.184 miliardi di euro, l’Italia di 2.019, la Francia di 1.921 e la Gran Bretagna di 1.850 miliardi al cambio attuale euro/sterlina. Valori ormai tutti sostanzialmente allineati tra di loro, senza grandi differenze. Evidentemente gli altri grandi Paesi europei negli ultimi anni hanno fatto molti più debiti di noi e ci hanno quasi raggiunto se non superato. Mentre gli USA hanno solo "dribblato" ma non risolto i problemi del "fiscal cliff". Eppure il debito pubblico italiano continua ad essere considerato il più pericoloso di tutti e paga interessi più alti. Ciò a causa del convenzionale metro di paragone del debito/PIL, oltre che per i problemi di perdita di credibilità del nostro Governo a livello internazionale che nel 2011 avevano fatto schizzare alle stelle lo spread. Situazione, quest’ultima, che grazie a Mario Draghi e Mario Monti abbiamo sensibilmente recuperato. Tuttavia, è ormai chiaro che il debito/PIL è un indicatore utile in prima approssimazione ma assolutamente non più sufficiente per misurare la sostenibilità finanziaria di una economia. L’Irlanda e la Spagna, solo pochi anni fa avevano rapporti debito pubblico/PIL tra i più bassi al mondo, ma nel settore privato questi Paesi covavano già i profondi dissesti che in seguito avrebbero coinvolto anche il settore statale, su cui si è scaricato l’onere di sostenere l’eccesso di indebitamento delle famiglie e delle imprese nonché l’esplosione delle sofferenze bancarie. Sicché l’Italia, pur avendo un rapporto debito/PIL assai più alto di quello di Madrid, oggi paradossalmente sta contribuendo esattamente come i virtuosi Paesi del Nord Europa a salvare le banche spagnole, dopo aver già soccorso precedentemente anche Grecia, Irlanda e Portogallo. Negli ultimi dodici mesi (da ottobre 2011 a ottobre 2012) l’Italia ha prestato bilateralmente o attraverso l’EFSF quasi 20 miliardi di euro in più a Paesi UEM: è principalmente per questa ragione che il nostro debito pubblico ha sforato prima del previsto quota 2 trilioni. Servono perciò parametri finanziari più adatti per graduare correttamente i rating odierni delle diverse economie. In primo luogo, andrebbe distinto il debito pubblico estero da quello interno di ciascun Paese. Se il debito pubblico esterno è troppo elevato in rapporto alle dimensioni di una data economia (dimensioni rappresentate dal PIL), uno Stato rischia effettivamente di perdere la fiducia dei mercati internazionali e di essere attaccato dalla speculazione. Diciamo allora che un debito pubblico finanziato da non residenti superiore al 60% del PIL (l’Italia è oggi al 44,5%, messa meglio di Germania e Francia) potrebbe costituire una prima ragionevole "soglia di emergenza" da non oltrepassare. Il debito pubblico interno, in secondo luogo, per essere realmente sostenibile deve essere bilanciato soprattutto rispetto alla ricchezza finanziaria netta delle famiglie residenti. Infatti, parte di tale ricchezza, come è noto, è in genere investita direttamente in titoli di Stato ma su di essa poggia anche la stabilità delle banche (che le famiglie finanziano con depositi ed obbligazioni), nonché la capacità delle banche stesse di acquistare a loro volta una quota importante delle obbligazioni pubbliche del proprio Paese. È quindi la ricchezza netta delle famiglie, alla base di tutto il sistema, il vero "polmone" finanziario di ogni economia (e l’indicatore chiave a cui rapportare il debito pubblico interno), non il PIL, da cui si "estraggono" solo le entrate statali necessarie per pareggiare o contenere il deficit corrente. In definitiva, la vera "garanzia" che lo stock di debito pubblico interno è sostenibile è data dalla ricchezza finanziaria netta privata, che, per intenderci, in Italia è oggi equivalente al 168% del PIL mentre in Spagna è solo il 72%. Diciamo allora che è un debito pubblico interno non dovrebbe rappresentare percentualmente una parte troppo elevata di tale ricchezza privata e che qualora esso superasse il 60% della medesima (l’Italia è oggi al 48,8% mentre la Spagna è all’84,5%!) dovrebbe cominciare ad essere giudicato piuttosto critico. In terzo luogo, occorre avere una percezione chiara anche del grado di indebitamento delle famiglie (che a sua volta può influire drammaticamente sulla stabilità delle banche, come dimostrano i casi di Irlanda e Spagna) e, in quarto luogo, va valutato attentamente anche il debito totale verso l’estero (pubblico e privato) di ciascun Paese. L’indebitamento delle famiglie preferenzialmente non dovrebbe superare il 60% del PIL (l’Italia è al 45,2%), mentre secondo la nuova procedura degli squilibri macroeconomici della Commissione Europea l’indebitamento finanziario netto totale di un Paese verso l’estero non deve ufficialmente oltrepassare il 35% del PIL (l’Italia è al 20,6%). Considerando le maggiori economie avanzate ed analizzando i dati del 2012, emerge che solo quattro importanti Paesi dell’Eurozona soddisfano contemporaneamente tutte le quattro condizioni di sostenibilità finanziaria precedentemente illustrate: Germania, Francia, Italia e Belgio (vedi tabella in alto). Se l’Italia, oltre a continuare a rendersi politicamente più presentabile all’estero e a stabilizzare con determinazione il proprio deficit statale corrente, spiegasse con chiarezza queste cifre ai mercati forse spingerebbe ancora più in basso il proprio spread. Non solo: in base ai 4 indicatori congiunti di sostenibilità, ne guadagnerebbe anche l’intera immagine dell’Eurozona, perché tutti i suoi tre Paesi "core" (Italia inclusa), e non solo la Germania, potrebbero rappresentare meglio la loro solidità finanziaria complessiva in un mondo sempre più indebitato dove nessun Paese (nemmeno al di là della Manica e dell’Atlantico) dovrebbe avere più il diritto di scagliare la prima pietra in materia di debiti.