Sergio Rizzo, Corriere della Sera 7/1/2013, 7 gennaio 2013
Centonovantatré giorni. Qualcuno in meno rispetto ai 226 impiegati sette anni fa dal vogatore solitario Alex Bellini per andare con una barca a remi da Genova a Fortaleza, in Brasile
Centonovantatré giorni. Qualcuno in meno rispetto ai 226 impiegati sette anni fa dal vogatore solitario Alex Bellini per andare con una barca a remi da Genova a Fortaleza, in Brasile. Il doppio, addirittura, di quanti ne sono bastati nel 1990 a Reinhold Messner per attraversare a piedi l’Antartide. Imprese estreme: mai però come le sfide che propone di continuo la nostra pubblica amministrazione. Centonovantatré giorni, ha calcolato l’ufficio studi della Confartigianato, è il tempo che serve in media a una fattura emessa da un fornitore per trasformarsi in denaro. Sei mesi e mezzo. Nel frattempo l’impresa fallisce e i suoi lavoratori si ritrovano sul lastrico. Oppure, per tirare avanti, può indebitarsi fino al collo: trovando però, il che non è assicurato, qualche banca disposta a fare credito. In caso contrario ci sono sempre gli strozzini. Questa faccenda va avanti da una vita. Correva l’anno 1997 quando le statistiche europee denunciarono come la nostra pubblica amministrazione saldasse le fatture mediamente in 87 giorni. Appena sette in meno della Grecia, allora a quota 94. Trascorsi quindici anni e alcune stagioni politiche, scandite da sei anni di centrosinistra, otto e mezzo di centrodestra e uno di coabitazione, eccoci a 193. Sei in più perfino rispetto alla Grecia. Nel solo semestre finito a novembre del 2012, periodo di crisi economica feroce, i tempi medi di pagamento pubblici si sono allungati ancora di ben 54 giorni rispetto ai 139 del maggio scorso. E senza contare le forniture alla sanità, ormai regolate a ritmi biblici: la media è di 269 giorni, ma si arriva a 425 nel Sud, con punte di 793 in Calabria, 755 in Molise, 661 in Campania. Gli effetti sono devastanti. Si calcola che i debiti commerciali accumulati dalla pubblica amministrazione abbiano raggiunto 79 miliardi, dei quali 35,6 soltanto verso i fornitori del servizio sanitario. Un macigno che si ingigantisce a velocità impressionante e nessuno, a dispetto delle promesse condivise da tutti, vuole davvero rimuovere. La motivazione? Inconfessabile: pagare i fornitori farebbe esplodere un debito pubblico già cresciuto nell’ultimo anno, secondo la stessa Confartigianato, di 187.008 euro al minuto. Anche se è impossibile ignorare le conseguenza catastrofiche sul sistema delle imprese, cui i ritardi di pagamento costano quasi due miliardi e mezzo l’anno solo di maggiori oneri finanziari. Ma adesso siamo al dunque. E ancora una volta le nostre cattive abitudini si scontrano con il vincolo esterno. Ovvero, le regole europee. Proprio mentre scopriamo che i tempi medi di pagamento si sono allungati ulteriormente di quasi due mesi dobbiamo fare i conti con la normativa comunitaria in vigore dal primo gennaio che impone di saldare i conti entro trenta giorni. I partiti che si stanno affrontando in campagna elettorale non possono eludere questo argomento cruciale. O liquidarlo con i soliti vaghi propositi. Occorrono impegni precisi. Perché non è soltanto un problema economico. È una questione di civiltà. E ciò, sia chiaro, vale tanto per lo Stato quanto per i molti privati da tempo purtroppo assuefatti alle pessime usanze pubbliche. Un Paese nel quale non si onorano gli impegni in tempi certi non è degno di dirsi civile.