Dino Messina, la Lettura (Corriere della Sera) 06/01/2013, 6 gennaio 2013
E SCHUSTER INVITO’ MUSSOLINI ALL’ESPIAZIONE
La morte va affrontata in piedi, aveva insegnato san Benedetto e un personaggio come Mussolini non si doveva spaventare alla prospettiva dell’espiazione in prigione o in esilio, com’era toccato anche a Napoleone. L’incontro tra il cardinale di Milano Ildefonso Schuster e il capo del fascismo, nel pomeriggio del 25 aprile 1945, quando ormai tutto era segnato, ebbe nelle fasi iniziali un unico testimone: il capitano Pio Bruni, 27 anni ancora da compiere, uno dei protagonisti, il 24 agosto 1942, dell’ultima carica della cavalleria italiana a Isbuscenskij, in Russia, e dopo varie peripezie diventato collaboratore del generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo volontari della libertà.
Oggi Pio Bruni, classe 1918, è probabilmente l’ultimo testimone diretto di quella giornata convulsa, in cui si svolse l’atto conclusivo del fascismo, nella stessa città, Milano, dove nel 1919 era nato il movimento dei Fasci di combattimento.
«Dopo il mio ritorno dalla Russia e un breve periodo da rifugiato in Svizzera — racconta Bruni nella sua casa milanese fra Brera e via Manzoni — fui chiamato dal generale Cadorna, che si fidava di me essendo stato mio comandante nel reggimento Savoia, al Corpo volontari della libertà. I miei erano principalmente compiti di intelligence: facevo la spola con la Svizzera e tenevo i contatti con gli Alleati. Una volta, avendo sentito che vicino a Merano si stavano facendo esperimenti con l’acqua pesante, che ignoravo cosa fosse, venni subito spedito all’ambasciata americana a Berna, a riferire all’agente 110, cioè ad Allen Dulles, capo dell’Oss, i servizi segreti militari statunitensi, in Europa. Una di queste mie missioni in Svizzera andò male. Tradito da un collaborazionista, nel febbraio 1945 fui arrestato dai repubblichini, che fortunatamente mi cedettero ai militari del controspionaggio tedesco. Dopo qualche settimana in carcere a San Vittore, dove non parlai, agli inizi di aprile fui liberato grazie a uno scambio con ufficiali nazisti, così mi ripresentai da Cadorna, che aveva uno dei suoi rifugi in un monastero di via San Vittore».
Mentre gli eventi bellici precipitavano, Mussolini aveva lasciato il Garda ed era tornato da qualche giorno a Milano. «Un industriale, Gian Riccardo Cella, che aveva comprato dal Duce in extremis il complesso del "Popolo d’Italia", in piazza Cavour, attraverso un amico, il notaio Albricci, mi aveva fatto sapere che Mussolini era disposto a trattare la resa. Portai subito l’informazione a Cadorna (e al Cln) ed ebbi l’ordine di stare in stretto contatto con Cella». Erano i giorni, per il confuso e depresso capo del fascismo, delle scelte più drammatiche. Arrendersi? E a chi: agli Alleati o al Cln? Fuggire? E dove: in Spagna, dove un aereo poteva trasportarlo al sicuro in poche ore o chiedere rifugio in Svizzera, dove facevano orecchie da mercante? O ancora asserragliarsi con i fedelissimi nel vaneggiato ridotto della Valtellina, in attesa di una resa onorevole?
«La mattina del 25 aprile — continua Bruni — mi chiamò finalmente Cella, avvertendomi che Mussolini voleva incontrare l’arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster, che sapevo disponibile a riceverci attraverso le notizie fornitemi da mio fratello Gaetano, che aveva sposato una Belgioioso. Andammo in prefettura dov’era Mussolini, con la macchina di Cella, una Isotta Fraschini di colore violaceo, e quindi velocemente verso piazza Fontana. In arcivescovado fummo introdotti nell’appartamento del cardinale e, nei primi momenti, fui l’unico testimone di un colloquio pacato, tra Schuster e Mussolini, che si era accasciato su un divano rosso e ascoltava la voce calma del suo interlocutore che lo invitava all’espiazione, citando Napoleone e san Benedetto». L’imperatore che morì in esilio e il santo che, secondo la leggenda devozionale, spirò in piedi.
Intanto il cardinale, ricorda Pio Bruni, «cominciava a mostrare segni di nervosismo. Gli attesi membri del Cln tardavano. Finalmente arrivò Cadorna, accompagnato da Riccardo Lombardi, che sarebbe stato il primo prefetto della Milano liberata, e dall’avvocato Marazza. In anticamera attendeva il prefetto Tiengo. Per parte fascista all’incontro con il cardinale furono convocati anche il maresciallo Rodolfo Graziani, Francesco Barracu e Mario Bassi. Mussolini cominciò un discorso tranquillo, in cui chiedeva garanzie per la milizia, per i gerarchi e, naturalmente, per se stesso. L’unico a intervenire fu Graziani, che disse: "Duce, ma noi non possiamo decidere niente senza avvertire i tedeschi"».
Di lì a poco il colpo di teatro: «Nel salotto cardinalizio — continua Bruni — entrò il segretario di Schuster, don Giuseppe Bicchierai, che portò la notizia, di cui si vociferava da giorni e che colse di sorpresa solo Mussolini: "I tedeschi hanno firmato la resa". Ci fu un attimo di silenzio e il capo del fascismo ebbe uno scatto. Alzandosi dal divano sul quale si era accasciato, urlò: ci hanno traditi, i tedeschi ci hanno traditi un’altra volta. Poi aggiunse: noi andiamo in prefettura. E partì con i suoi collaboratori».
La sera del 25 aprile Mussolini lasciò la prefettura su un’automobile che ospitava anche Nicola Bombacci, il suo vecchio nemico comunista che negli anni Trenta aveva aderito al fascismo e ora sceglieva di seguire il Duce nell’ultimo viaggio. Dietro di loro, la colonna dei gerarchi, alcuni dei quali sarebbero stati fucilati a Dongo.
«La sera del 25 — ricorda Bruni — dormimmo in prefettura. Quando arrivammo nella sede governativa di corso Monforte, vidi che dalle scale scendeva Michele Bonaia, un campione di boxe che aveva partecipato alle torture a villa Triste. Partì una raffica e il pugile rotolò per lo scalone. In quelle ore nessuno era sicuro. Un commesso, probabilmente lo stesso che aveva servito il giorno prima Mussolini, ci aveva dato lenzuola e coperte pulite. Il 26 ci trasferimmo al comando militare di via Brera, dove il 27 ci giunse la notizia che Mussolini era stato fermato. Da Milano partirono due camion agli ordini di Walter Audisio, alias il colonnello Valerio, che avrebbe fucilato il Duce a Giulino di Mezzegra. Appena seppe della spedizione, Cadorna mandò un altro camion con Luchino dal Verme, il quale non riuscì ad arrivare neanche a Como, ostacolato dagli altri partigiani. Audisio aveva agito non su ordine di Cadorna, ma del suo capo comunista Luigi Longo, vicecomandante del Corpo volontari della libertà, e di Aldo Lampredi, suo braccio destro. Se Mussolini si fosse consegnato agli Alleati o a Cadorna, forse non avrebbe fatto quella fine, forse ci sarebbe stato un processo, una Norimberga italiana».
Nel dopoguerra, declinati gli inviti di Ferruccio Parri (a entrare in politica) e di Enrico Mattei (a seguirlo nell’avventura dell’Eni), Pio Bruni ha svolto con successo prima attività di import-export con la Svizzera e poi è stato amministratore delegato e presidente di una impresa metalmeccanica italo-tedesca. Negli ultimi anni si è occupato esclusivamente di cavalli, la sua grande passione.
Dino Messina