Mariarosa Mancuso, la Lettura (Corriere della Sera) 06/01/203, 6 gennaio 2013
SELKIRK, PROFESSIONE ROBINSON CRUSOE
Prima di Robinson Crusoe, Daniel Defoe era un quasi sessantenne nato in una modesta famiglia di macellai (il De nel cognome fu aggiunto più tardi, a simulare illustri origini, come farà anche il vanitoso Balzac). Da bambino era scampato alla peste che a Londra fece centomila morti, e poco dopo al Grande Incendio che nel 1666 devastò la città: la disgrazia innestata sulla disgrazia perlomeno spazzò via i bacilli. Aveva fatto il commerciante di vini, messo su un negozio di calze con la dote della moglie, avviato una fabbrica di mattoni e tegole. Era stato esposto alla gogna, lo avevano rinchiuso sei mesi per debiti nella prigione di Newgate. Era diventato il più famoso ghostwriter del suo tempo (o se preferite: il capofila degli spin doctor, ma la delazione e lo spionaggio stavano nel mansionario). Prima mise la sua bravura al servizio dei Tory, antenati del partito conservatore, poi cambiò casacca e passò ai rivali Whig.
Al romanzo arrivò per caso, a un età che per gli uomini del suo tempo era da piede nella fossa. E per il solito bisogno di denaro: doveva pagare il matrimonio della figlia Maria. Rispolverò la vera storia del marinaio Alexander Selkirk, già raccontata dal saggista Richard Steele (poi fondatore con Joseph Addison della rivista «The Spectator») sulle pagine di «The Englishman». Ne ricavò un bestseller: la prima edizione di Robinson Crusoe fu pubblicata anonima a fine aprile del 1719. Ristampa a maggio, altra ristampa a giugno, traduzioni in francese, olandese tedesco e russo. Nel 1756 Robinson Crusoe fu vietato in Spagna, rivale dell’Inghilterra nelle conquiste coloniali (i galeoni carichi d’oro erano un ricco bottino per i corsari). Nel 1770 fu la volta dell’edizione economica. Come in ogni fenomeno modaiolo, non era il denaro a tener lontani i lettori: «Non c’è vecchierella che possa permettersi quel prezzo, eppure compra Robinson Crusoe per lasciarlo in eredità alla progenie», scriveva uno stupito cronista.
Alexander Selkirk aveva trascorso quattro anni e quattro mesi sull’isoletta deserta di Masafuera, a 800 chilometri dalla costa cilena nell’arcipelago delle Juan Fernandez. Sbarcato da una nave inglese per sua volontà (dopo contrasti con il comandante, che credeva l’imbarcazione sicura a dispetto del legno divorato dai vermi), fu avvistato da un’altra nave inglese il 31 gennaio 1709. Lo credettero un selvaggio pericoloso, quindi si avvicinarono dopo prudenti manovre durate un paio di giorni. Poiché il mondo degli avventurieri era piccolo, a bordo della nave salvatrice ritrovò William Dampier, armatore e «vecchio cane d’un pirata» (per chi lo conosceva bene). Giusto l’uomo che aveva comandato la precedente disastrosa spedizione. Con la sua rabbiosa decisione di cui subito si pentì — appena la scialuppa lo sbarcò sull’isoletta, assieme al baule che conteneva abiti e coperte, implorò di tornare a bordo, mentre la nave levava l’ancora — il marinaio scozzese evitò una sorte peggiore: i compagni poco dopo morirono in un naufragio. Per qualche giorno sperò che ritornassero a prenderlo. Poi si rassegnò.
Il naufrago Selkirk costruisce due capanne: ne costruirà due anche il Robinson di Defoe, una sulla costa perché lo vedano e una in una fertile vallata, il tempo non mancava e lo spazio neppure. Impara a cacciare le capre, e poi ad allevarle vicino ai suoi possedimenti, casomai fosse caduto malato come già era successo una volta. Per tenere lontani i topi, che gli divorano le provviste, addomestica i gatti selvatici (e negli incubi solitari teme che saranno i felini a far scempio del suo cadavere). Oltre alla compagnia, gli mancava il sale per condire i cibi: stranamente, non pensò mai di ricavarlo dall’acqua di mare. Trovò conforto nella Bibbia, che leggeva ad alta voce per non disabituarsi a parlare.
Nell’isola collocata da Defoe presso «le coste americane vicino alle foce del grande fiume Orinoco», Robinson rimase 28 anni, prima che i pirati lo riportassero in patria. Alexander Selkirk tornò in Inghilterra ricco e famoso, dopo qualche altro anno di scorribande: la sua parte di bottino ammontava a 800 sterline dell’epoca, da nuovo ricco si presentò al paesello, nella contea di Fife, con abiti profilati d’oro.
La storia c’era, eccome. Serviva però il genio del primo romanziere inglese per trasformare la cronaca in un classico istantaneo. L’intraprendenza del naufrago va di pari passo con i dilemmi morali e fa capolino un principio di relativismo: uccidere o non uccidere i cannibali? Sarebbe occhio per occhio e dente per dente, ma loro non sanno quello che fanno, noi sì. Poi il pragmatismo dei giusti prevale, quindi decide per l’attacco risparmiando l’indigeno Venerdì: ne farà il suo servo e un buon cristiano. Esportando, se non la democrazia, almeno la Bibbia.
«Ho consumato sei resistenti copie di Robinson Crusoe, per il largo uso che ne ho fatto durante il mio servizio» annuncia il maggiordomo Gabriel Betteredge. È uno dei narratori che si alternano in La pietra di Luna, scritto nel 1868 da Wilkie Collins (secondo T.S. Eliot, «il primo, più grande e più lungo» poliziesco inglese, e anche il primo che, per non ingannare il lettore tacendo dettagli, elimina il narratore onnisciente). Betteredge usa il romanzo come una Bibbia laica, o come i Ching: dubbioso o incerto sul da farsi nei casi della vita, apre una pagina e legge le prime righe che gli capitano sotto gli occhi, ricavandone conforto e consiglio.
Robinson Crusoe fu accusato di pessimo stile, imprecisioni, assurdità (non di parassitismo o pirateria: il valore aggiunto dalla scrittura romanzesca risultò subito chiaro, a quei tempi l’originalità non era un valore). Più o meno le accuse rivolte alla serie tv Lost, ultimo di una lunghissima serie di «robinsonate» tra cui Una famiglia di Robinson svizzeri (di Johann David Wyss), Venerdì, o il limbo del Pacifico di Michel Tournier, il revisionista e femminista Foe di J. M. Coetzee. Non tutto torna, ma la storia è così appassionante che giriamo le pagine senza notare che il naufrago si spoglia per nuotare verso il relitto, salvo poi «riempirsi le tasche di biscotto». Il terrore provato dal naufrago quando vede l’orma di un piede non suo sulla sabbia fa scordare la domanda «perché una sola impronta?».
Sviste, che non inficiano la sospensione dell’incredulità. L’abbiamo già sospesa quando Robinson racconta il bisogno per il buon vivere di un tavolo e di una sedia. Armato di ascia e scure da un albero ricava una sola asse, con spreco di tempo e di energie. Impossibile non pensare ad Adam Smith, che in La ricchezza delle nazioni (1776) descrive la fatica di uno spillo auto-costruito, e poi celebra la divisione del lavoro. L’abbiamo già sospesa quando Robinson fa la lista delle cose buone e cattive, segna i giorni sul calendario e tiene un suo diario, si meraviglia per le spighe di grano che sembrano un benevolo dono di Dio, poi capisce che gli erano caduti dei semi per terra. Karl Marx fu invece colpito dalla gran quantità di provviste ricavate dal relitto, ora a disposizione di un uomo solo (c’era liquore bastante per 28 anni).
A Masafuera — ora ribattezzata dai cileni «Alejander Selkirk» — sbarcò un paio d’anni fa Jonathan Franzen. Era stanco dopo il tour promozionale di Libertà, ancora in lutto per il suicidio dell’amico David Foster Wallace. Ci andò con una copia di Robinson Crusoe, il romanzo prediletto da suo padre, e un mucchietto di ceneri da spargere in mare per volontà della vedova Wallace. Lo racconta in Più lontano ancora (Einaudi) e non può fare a meno di notare, nel negozio sull’isoletta, che i Robinson moderni hanno a disposizione un calice da Martini con lo stelo svitabile.
Mariarosa Mancuso