Danilo Taino, la Lettura (Corriere della Sera) 06/01/2013, 6 gennaio 2013
SPORT E POLITICA, LA RIVINCITA DEI GLADIATORI
Se quest’anno Imran Khan diventerà primo ministro del Pakistan, se ne rilancerà l’economia e se in novanta giorni abolirà la corruzione — così promette —, la Gran Bretagna uscirà dall’Unione Europea. E tornerà a occuparsi seriamente (per quel che può) del Commonwealth. Previsione sventata? Forse, ma se ne fanno tante in questo inizio di 2013. Questa ha il vantaggio di fondarsi su una storia straordinaria come solo quelle sportive sanno essere e di aprire una finestra su ciò che è diventato lo sport nel mondo: una delle forze che muovono la realtà e la politica.
La ragione per cui il primo ministro britannico David Cameron dovrebbe guardare con attenzione alle elezioni pakistane, che si terranno probabilmente in maggio, sta nel fatto che il potere potrebbe essere conquistato da uno degli eroi più popolari, più amati e più invidiati di una delle maggiori esportazioni inglesi nel mondo, il cricket. Non un’esportazione comune: qualcosa che ha diviso il pianeta tra chi lo pratica e gli altri; qualcosa nato sui prati umidi dell’Inghilterra e diventato ossessione nei Paesi dell’ex impero; qualcosa che fa dire a ogni taxista serio di Londra che «il calcio è un gioco, il cricket uno sport». Siamo pienamente nel territorio del soft power: della dimensione culturale, dell’appartenenza, del piacere che delimita vicinanze e differenze. Bene: la novità che Cameron dovrebbe tenere d’occhio — per interrogarsi su quale sia il mondo cui appartiene il Regno Unito — sta nel fatto che uno dei più grandi veicoli di questo potere morbido, lo sport appunto, sta trovando interpreti e protagonisti, come capita ai fenomeni quando diventano maturi. Imran Khan — 60 anni, maggiore mito pakistano del cricket, playboy internazionale, benefattore e politico di prima linea in uno dei Paesi più caldi del mondo — è uno di questi miti dello sport che passano alla politica. Altri stanno emergendo, a Ovest e a Est.
Non è detto che il partito guidato da Khan, il Movimento per la Giustizia, vinca le elezioni. L’ex capitano della nazionale di cricket pakistana negli Anni Settanta, Ottanta e primi Novanta è di gran lunga il politico più popolare del Paese, nei sondaggi raccoglie il 70 per cento dei favori. La sua campagna contro la corruzione e l’uso «illegittimo» di droni nelle aree povere del Pakistan da parte degli americani raccoglie consensi. L’ospedale che ha fondato, di standard internazionale e gratuito nel 75 per cento dei casi, dimostra che il popolo gli sta a cuore. Le donne lo adorano, gli uomini vorrebbero essere come lui: il suo matrimonio (ora terminato) con la bellissima Jemima Goldsmith, figlia del leggendario finanziere sir James, è stato per anni sulle prime pagine dei giornali (locali e non solo). Quando si tratta di trasformare la popolarità in voti, il discorso però cambia, soprattutto se gli avversari sono vecchie volpi del potere e delle clientele, come il presidente Asif Ali Ziliani e l’ex premier Yousaf Raza Gillani. I commentatori, infatti, danno il Movimento per la Giustizia al massimo al terzo posto alle prossime elezioni. Ciò nonostante, sarà il partito di Khan quello da battere.
Nelle Filippine, dove la boxe resta uno sport con un seguito di massa, lo sportivo «salito» in politica si chiama Manny Pacquiao, 34 anni, uno dei più grandi pugili della storia, vincitore di dieci titoli mondiali. Sulla sua vita è stato girato un film, è protagonista di una serie di videogiochi e nel 2009 la rivista «Time» lo ha inserito nella lista delle persone più influenti del pianeta. Nel 2007 e nel 2010 è stato eletto al parlamento di Manila: si sta allenando, sostengono alcuni commentatori, per diventare presidente. In Liberia, la scalata alla presidenza la tentò nel 2005 George Weah, 46 anni, ex calciatore (tra le altre squadre del Milan, del Manchester City, del Chelsea), unico Pallone d’oro africano. Fu sconfitto da una economista, ma rimane un riferimento politico per il Paese. In Ucraina, Vitali Klitschko, 41 anni, è campione del mondo Wbc dei pesi massimi. Un mito nazionale: con un tasso di incontri vinti per knockout pari all’87,23 per cento, nella storia della categoria è secondo solo a Rocky Marciano (87,76 per cento). Nel 2010 è diventato il leader del partito Udar, che l’anno scorso ha ottenuto 40 seggi in parlamento. È uno dei maggiori oppositori del presidente Viktor Yanukovych, manifesta per la liberazione della ex primo ministro Yulia Tymoshenko, vuole che l’Ucraina entri nella Nato e abbia legami sempre più stretti con l’Ue.
Ma è l’America, naturalmente, il Paese dove il legame tra campioni dello sport e politica è più diffuso. Nel Paese dove nelle squadre di football dei college si sono formati presidenti come Dwight Eisenhower, Gerald Ford, Ronald Reagan (tutti repubblicani), non stupisce il passaggio dal campo sportivo a un’assemblea legislativa. Finora, la popolarità data dallo sport non ha portato nessun campione alla Casa Bianca. Ma gli atleti di primo piano passati alla politica sono molti: Jack Kemp, giocatore di football, nove volte alla Camera; Bill Bradley, campione della pallacanestro anche in Italia, tre volte senatore; Jim Bunning, eroe del baseball, otto volte senatore; Jesse Ventura, curioso campione di wrestling, governatore del Minnesota; Kevin Johnson, tre volte All Star della Nba, sindaco di Sacramento. E molti altri, fino ad Arnold Schwarzenegger, culturista oltre che attore e poi governatore della California. In Gran Bretagna, l’oro olimpico Sebastian Coe, oggi lord Coe, può sembrare un po’ fuori dal mondo quando dice: «Non ho mai spedito una email nella mia vita, non ho nemmeno un computer sulla mia scrivania». Fatto sta che, dopo essere stato eletto a Westminster per il Partito conservatore, ha lavorato con il laburista Tony Blair e il risultato è che ha organizzato una delle Olimpiadi di maggior successo della storia, quella di Londra dell’anno scorso: impegno eminentemente politico.
Non è solo che i campioni dello sport sono diventati più bravi a usare la popolarità in un nuovo campo. Le ragioni del loro successo in politica sono numerose. Alla gente piacciono perché hanno motivazione e carattere. Perché non lasciano il lavoro a metà: un pugile protesta quando l’arbitro lo penalizza con un ko tecnico, anche se ha gli occhi tumefatti e sanguina. Perché nella vita sono andati avanti per merito e abilità, nella competizione e non nei privilegi. Perché davanti al gesto atletico anche i cuori più duri abbandonano il cinismo. Perché attorno alla palla da baseball che esce dal campo nel nono inning della partita del 3 ottobre 1951 al Polo Grounds di New York, Don DeLillo può raccontare l’intera America di Underworld. Perché in una politica che non dà più emozioni lo sport riesce ancora a produrre brividi: e, soprattutto nei Paesi emergenti, diventa un veicolo di identità nazionale. E anche per un altro motivo: un buon giocatore di calcio, di cricket, di baseball sa raggiungere la palla in volo, misura istintivamente l’angolo per farla sua; ma se gli chiedete di calcolare in quale punto del campo la palla cadrà, non ne sarà in grado. I grandi campioni non prevedono il futuro, ci si adattano: e il loro pragmatismo piace agli elettori.
Tutto questo è sport e fascino dello sport. Ma non spiega perché proprio ora gli eroi del cricket, del pallone, del ring diano la scalata alla politica. È che probabilmente lo sport è diventato la continuazione della politica con altri mezzi. E qui siamo in piena rivoluzione. Le contese per le star del calcio, soprattutto tra signori del petrolio arabi e oligarchi russi, trasformano gli atleti in gladiatori da conquistare: in via diretta ciò avviene per ragioni di business, ma in via indiretta li fa diventare simboli del potere del club, ragioni di orgoglio di appartenenza, «politici» in partenza. La competizione per ospitare un Mondiale di calcio è immediatamente un fatto politico, di dignità nazionale: che i prossimi si tengano in Brasile, Russia e Qatar è anche il segno del nuovo ordine tra le nazioni. D’altra parte, Inghilterra e Australia hanno dominato per decenni i circoli del cricket, e ancora oggi riescono a vincere sfide importanti: ma l’80 per cento del denaro che circola nel mondo attorno a questa sfida all’ora del tè, incomprensibile per noi calciofili, è generato in India.
Gli sport sono insomma diventati un gigantesco fenomeno globale, forse secondo solo alla finanza. A differenza di questa, entusiasmano e, al pari di questa, sono a tutti gli effetti un torneo del potere. Perché dunque un gladiatore non dovrebbe venire innalzato a furor di popolo sul Campidoglio? In vena di previsioni: accadrà sempre più spesso.
Danilo Taino