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 2013  gennaio 06 Domenica calendario

GIORNI FELICI, VESTITI ALLA MENEGHINA

Milano ancora ieri di Alberto Vigevani (Sellerio) si riferisce anche all’altro ieri, prima dell’ultima guerra. Ma benché citi parecchi bei negozi «purtroppo appena chiusi», può rinnovare tanti bei ricordi appena d’una cinquantina d’anni fa. Quando arrivando alla Scala da via Santa Margherita non c’erano solo banche ma illustri gioiellerie e librerie (Vallardi), mentre uscendo fra via Manzoni e via Verdi sfolgorava una squisita pasticceria. E nell’Ottagono, in Galleria, troneggiava una C.I.T. statale, fra la libreria Garzanti e il sontuoso Savini, con eleganti habitué da dopo opera, e magari colazioni discrete e fini per assunzioni al «Corriere della sera».
Chiusi, finiti, i lattai e fornai e droghieri di quartiere, i salumai non di lusso, le paralumaie e i corniciai e i ferramenta, quasi tutti i sarti e camiciai su misura, «nel lussuoso suk della Moda». E le sartine e piscinine e commesse interpretate da Assia Noris e Maria Denis e Luisella Beghi negli anni Trenta, nostalgicamente ricordate da Saul Steinberg tanti anni dopo, e involontariamente contemporanee di Walter Benjamin: «Passeggiando per Milano — camminando piano piano — quante cose puoi vedere — quante cose puoi saper. — Molta gente per la via, — molta gente in Galleria…». E Carlo Linati: «Tutte le vie e viuzze prossime alle sartorie brulicavano (alla chiusura) di coppiette: via Senato, via San Primo...». Proprio in via San Primo 6, accanto a una via Spiga ancora piuttosto rustica, con minuscole salumerie e cartolerie e una Felicita Colombo alla cassa, ho abitato per trent’anni in affitto dai Bompiani: una convivenza affabile e ideale, giacché con la casa editrice del conte Valentino mai ebbi a che fare. Ci si intratteneva nell’androne, qualche volta salivo a pranzo con ospiti di riguardo.


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«E le sartine — dalle vetrine — fanno mille mossettine…». Quante guantaie e crestaie, nelle memorie anteguerra del Vigevani. Coi camiciai Pozzi e Truzzi, ma senza le mitiche modiste che vendevano cappellucci quadrettati ai commendatori della Brianza e a Carlo Ponti, o uscivano dal negozio sotto i portici per segnalare ammiccanti «una sorpresa!» ai Tonini che in paltoncino blu uscivano dai circoli per far colazione a casa. Sarti e misteri esclusivi per Raffaele Mattioli, che riceveva pacato e ironico in un suo ufficio alla Commerciale, senza una sola carta sul tavolo — solo asinelli abruzzesi su una mensola — mentre probabilmente le carte si ammucchiavano in qualche studio attiguo.
Ecco banchieri e droghieri, cappellai e ciabattini. E personaggi caratteristici nelle varie epoche: l’occhiuto e occhialuto Cesarino Branduani, libraio da Hoepli, Giovanni Comisso commesso nella «Bottega di poesia» di Emanuele Castelbarco e Walter Toscanini, donna Mimina Brichetto Arnaboldi «che leggeva i classici greci nella lingua originale», e aveva un salotto letterario presieduto da Riccardo Bacchelli. (Ma sua figlia Bice Brichetto, eccellente pittrice, è morta a Orvieto poco fa. E la nipote Letizia Moratti mi diceva che quando fu ministro della Pubblica istruzione teneva sulla scrivania una foto della nonna Mimina con Benedetto Croce). E i locali scomparsi nei bombardamenti, come le Tre Marie, o spariti in seguito, come il Craja o il Blu Bar, dove Luciano Anceschi volentieri pontificava ai miei coetanei… Però, accanto ad Antonio e Rodolfo Banfi, da tempo scomparsi come Vittorini e Longanesi e Aldovrandi, anche la contemporanea Rosellina Archinto.
Nessun teatro, però: in una città dove gli spettacoli furono sempre così importanti, dalla Scala con la Callas fra De Sabata e Karajan, al Piccolo di Strehler, all’Odeon al Lirico al Nuovo con Ferrati e Maltagliati, Adani e Pagnani e Magnani al Manzoni, e Ruggeri e Ricci e Cimara e Tofano e Luchino Visconti, e Gieseking o Backhaus nel pomeriggio, e la sera Totò o la Wandissima, Taranto, Macario, Dapporto… Ma perché?


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L’arrivo a Brera dei Tarocchi Sola Busca rinvia subito a precedenti illustri. Per iniziare, ancora lì a Brera, con la favolosa mostra (verso la fine del 1999) dei fantastici Tarocchi di Bonifacio Bembo e della cultura cortese tardogotica. Ben tre mazzi — Brambilla, Visconti di Modrone, Colleoni-Baglioni — suddivisi tra complicate vicissitudini di giochi e casi e magie e fortune in varie sedi, oltre che Brera: Yale University, Pierpont Morgan Library newyorkese, Accademia Carrara bergamasca, privati… E come mai Brambilla? Si ricordò una lontana contessa o marchesa Brambilla che a un remoto ricevimento nuziale palermitano lamentava che i suoi cagnolini, giungendo dai territori manzoniani a quelli gattopardeschi non la riconoscevano più, e volevano aggredirla. Avvertivano l’atmosfera diversa, evidentemente.
Si rammentò ancora una gita a Denver (Colorado), scendendo da Aspen per un suggerimento di Roberto Longhi, poiché quell’insigne castello «neofeudale», opera di Gio Ponti, racchiude alcuni «tarocchi di lusso» del Bembo, nonché due suoi pannelli cremonesi fastosamente istoriati a «cincinni eleganti» secondo il gusto cortese, «bendato dal fasto greve e vacillante di un orizzonte privato».
Uscendo da Brera, non si passò a rivedere i Tarocchi nell’affresco di palazzo Borromeo: Michelino o Masolino? Besozzo o Panicale? Si andò a colazione, piuttosto. E una famiglia di eminenti banchieri, nel ristorante, dava la sensazione di un passaggio dall’ottica cortese all’espressionismo tedesco.
Alberto Arbasino