Valerio Cappelli, Corriere della Sera 6/1/2013, 6 gennaio 2013
ZEFFIRELLI: ARTE, AFFETTI, RIMPIANTI
C’è un momento molto intenso quando Franco Zeffirelli chiede ai suoi due figli adottivi, Pippo e Luciano, di uscire dalla stanza in cui cerchiamo di raccontare i suoi 90 anni straordinari: li festeggerà il 12 febbraio (e il 10 marzo all’Auditorium di Roma Carlo Ponti, il figlio di Sophia Loren, dirigerà le musiche dai suoi film). Poi tornerà a immergersi a Firenze nella Fondazione che porterà il suo nome, e che ospiterà tra l’altro bozzetti, archivio e i 10 mila volumi della sua biblioteca. Rompendo il riserbo in cui ha avvolto la sua vita privata, il celebre regista sta parlando di loro, i due figli che lo seguono e lo adorano da 40 anni. Hanno scritto che li ha adottati per la loro dedizione, dopo la grave infezione seguita al trapianto d’anca del 1999 in Usa.
«Questa è un po’ da libro Cuore. È un argomento a cui tengo molto, ricco di sostanza. Tu vivi in uno stato di solitudine affettiva, ed ecco che sei possibile vittima di un fascio di luce che cambia il calore del tuo spirito, due creature che ti si offrono per essere osservate, e in loro manca un legame di ferro, manca qualcosa... Quanto a me, se non hai avuto i genitori, hai bisogno di essere madre o padre nel mondo degli affetti. Pippo e Luciano sono assolutamente diversi, il che mi preoccupa e mi fa piacere».
Zeffirelli, «Vissi d’arte». L’allievo prediletto di Visconti, l’amico del cuore di Liz Taylor e di Laurence Olivier che lo chiamava «il grande Zeff». Ha lavorato con tutti i più grandi del 900, da Maria Callas ad Anna Magnani: «Non si conoscevano, riuscii a unirle a tavola, superata l’iniziale diffidenza di colpo sembravano due vecchie amiche». Conservatore e anticonformista, viene considerato un tradizionalista. Ma se si pensa a Lo frate ’nnamorato di Pergolesi alla Piccola Scala con la juta sgranata, creando un effetto alla Turner, che realizzò senza soldi e in fretta e furia dopo la defezione di Eduardo... «Anche l’Amleto con Albertazzi e Dopo la caduta avevano il segno dell’innovazione. Si è passatisti se si conduce una ricerca storica e si servono le intenzioni dell’autore? Lo sono stato per la ganga culturale di sinistra, a cui non appartenevo». Ed ecco il polemista Zeffirelli. Kezich disse che ha un sosia come Goljadkin nel romanzo di Dostoevskij, ovunque vada a coprirsi di gloria, spunta il «doppio» che lo mette in cattiva luce. Ma pochi sanno della sua generosità, di quando ospitò per mesi a casa sua il direttore di palcoscenico del Met di New York in pensione, per dirne una. È nell’opera, in quegli spettacoli carichi di tinte come le tele del Tiepolo, che la sua stoffa si esalta. Si può dire che La Bohème scaligera del 1963, con i due piani sovrastanti dove si incontrano la folla del Quartiere Latino e i frequentatori del Cafè Momus, è lo spettacolo della sua vita? «Penso di sì. Fu Karajan a impormi dopo aver visto la mia regia del Romeo e Giulietta all’Old Vic di Londra. Disse che nessuno sapeva raccontare meglio di me l’amore e le tragedie giovanili. Ripresi quella Bohème con Carlos Kleiber, che considero il più grande. Un uomo gentile, di poche parole, fragile, non ti faceva sospettare nulla della sua unicità, che non so spiegare: perché è stato unico Michelangelo? Ricordo un’estate nella casa che avevo a Positano, lui e Leonard Bernstein. Uno viveva di giorno e l’altro di notte. Dovevamo dare il nostro consenso alla videocassetta della Bohème. Bernstein smaniava per assistere e io, conoscendo Carlos, lo pregai di desistere. D’un tratto Lenny comparve sulla porta, in punta di piedi per non farsi notare, prese a singhiozzare: "Carlos, tu sei un Dio"».
Dal cinema ha avuto meno? «No, ho fatto quello che potevo fare, cosa penso dei nuovi registi? Ti fanno rimpiangere quelli di prima. Le tre vestali, cinema, lirica, prosa, io le considero le puttane di turno: le rispetto, le devo far sembrare meglio di quello che sono, mi commuovono. Qualche giovane regista di talento c’è nella lirica, il problema però non è solo di azzeccare un’invenzione. E la scenografia, che di solito si trascura, è fondamentale». La vita è fatta anche di appuntamenti mancati: i suoi furono Jesus Christ Superstar e i Beatles che voleva per il film su San Francesco? «Lei vive su un altro pianeta? Nel mio Gesù di Nazareth c’è già la Superstar, quel progetto mi ha migliorato come uomo. Quanto ai Beatles è vero, ha ragione, è il mio rimpianto. Ma loro erano disponibili quindici giorni appena».
Nel 1994 è stato senatore nelle fila di Forza Italia. Se ripensa a quell’esperienza... «Fu uno sbaglio entrare in politica. Volevo dare il buon esempio della cultura al servizio della società. Non erano i tempi, come non lo sono nemmeno oggi. La politica purtroppo è il lusso dell’uomo qualunque, che crede di poter fare una grande carriera al di là delle possibilità che tutti hanno». Berlusconi ridiscende in campo. «E mi fa molto piacere, così come mi convinse il coraggio che ebbe di entrare in quel pantano». E al fiorentino Zeffirelli piace Matteo Renzi? «È un ragazzo pieno di idee brillanti e aperte. Ma è fuori posto. Non gli ha giovato essere sindaco. Lo vedevo bene come avvocato».
Lei è il custode dei classici. Su un’isola deserta, cosa porterebbe di Shakespeare? «Porterei più volentieri un orfanello, avendo pregato Dio di trovare quello giusto. Non c’è cosa più straordinaria dell’amicizia». Si è mai sentito straniero in patria? «No, perché l’Italia me l’ha fatta amare Shakespeare. Le sue storie umane non potevano che succedere nel nostro Paese».