Giuliano Zincone, Corriere della Sera 05/01/2013, 5 gennaio 2013
«ORA HO UN POLMONE E MEZZO E CON IRONIA CURO IL MIO TUMORE»
«Su, non fare quella faccia. Dopo l’operazione starai benissimo. Una mia amica ha subito un intervento simile l’anno scorso, ed è ancora...». Viva? «Arzilla e ottimista, per lei il bicchiere è sempre mezzo pieno. E per te?». Dipende. «Pensa: dovrai smettere di fumare. Non sei contento?». Una Pasqua. «Fumare fa malissimo: cancri, ictus, infarti, enfisemi e chi più ne ha più ne metta». Sul serio? «Soprattutto la pianterai con tutte quelle pantomime al ristorante, sempre a scappare fuori con la sigaretta, magari proprio mentre s’incominciava a parlare di Oscar Giannino. A proposito, come l’hanno scoperto?». Chi, Giannino? «Meno male che hai voglia di ridere. Su, dimmi».
Hai letto quel racconto di Buzzati, «Sette piani»? «No». Beh, c’è un tizio che crede di avere un leggero disturbo. Così entra in una clinica, dove lo tranquillizzano e, solo per precauzione, lo ricoverano al settimo piano, riservato ai (quasi) sani. Diversi motivi, coincidenze e/o pretesti trasportano il poveretto ai piani inferiori, destinati agli ammalati sempre più gravi. Il racconto finisce con il disgraziato al pianterreno e con le saracinesche abbassate. «E allora?». Allora ero ad Anacapri, in piscina. Un lieve malore, arriva un medico: fibrillazione, barella, ambulanza, ospedale. Dopo un paio d’ore tutto sembra risolto, ma (non si sa mai) rimango ancora in osservazione tre giorni e tre notti, in camera con un reduce dalla campagna di Russia, che conversa con i parenti amorosi dall’alba a mezzanotte, urlando perché è sordo (diversamente udente?). Nella mia radiografia compare un’ombra, serve la Tac. Sì, c’è qualcosa. Per essere più precisi ci vuole la Pet. Verdetto finale: cancro al polmone. Grande, cioè piccolo come una moneta. «Che moneta?». Falsa, da buttare. Nella clinica di Buzzati, insomma, adesso sarei già al secondo piano. «Uhm, però risalirai, ne sono sicura. Quando ti operi?». La settimana prossima, Venerdì. «Uhm, Venerdì porta fortuna. Ti segheranno le costole?». No, cara. Faranno un taglio e useranno il divaricatore per acchiappare il polmone. Ne trinceranno un bel pezzo e lo daranno al gatto. «Sul serio?». Tu che ne pensi? «E che ne pensa, il gatto?».
Uffa, ecco Pia in versione postoperatoria. «Come stai? Ti vedo in forma». Mostro il pollice, non ho voglia di parlare. «Mammamia, quanti tubi e tubicini. Pure nel naso, come nei telefilm, e spuntano dappertutto. Ho parlato con l’onorevole Vastaso, che è un chirurgo famosissimo. Dice che devi lottare ancora per qualche giorno, poi basta». Basta. In che senso? Questa storia della lotta mi ha sempre fatto schifo. Io non lotto per niente. Mi becco iniezioni, flebo, pasticche e ossigeno senza reagire, altro che lotta. Lividi sulle braccia e sulla pancia, viola e poi neri, vene tumefatte. Asfissia, affanno, cinquanta sfumature di malanni. Quando non sono in letargo mi sento implume o in poltiglia. «Esagerato, che sarà mai?». Sui giornali scrivono sempre metafore sui cancri da estirpare, tipo la corruzione. E, quando un tizio famoso ci rimane secco, pigolano che ha lottato ma... ma come fa il participio passato di «soccombere»? Soccombuto? No, non credo. «Ohè, dormi, fai la salma?». No, rimpiango. Si stava benissimo nella cuccia amniotica della Terapia Intensiva. Davanti al letto contemplavo una mia foto intima: un polmone e mezzo in bianco & nero. Dottoresse e dottori premurosissimi. Infermieri squisiti, uno identico al papa Giovanni Paolo II, ma con la coda di cavallo. Assistenti affettuose, soprattutto Aliona e Maria, donne da sposare sùbito. E una gerarchia pazzesca, presessantottesca, tra i diversi professionisti della salute. Altro che ufficiali, sottufficiali e truppa.
Contro il dolore mi somministrano un po’ di morfina, così capisco quanto ne fosse ghiotto il mio caro Antonin Artaud. Mi sento spiritosissimo, faccio un sacco di complimenti sperticati alle infermiere, ingiungo a un simpatico chirurgo di darci del tu, mentre lo ammorbo con le disavventure del Milan. Quando sono solo non penso al polmone, ma, per esempio, a Van Rompuy, e a come si dice: Rompey, Rompoy, o Rompay? E, certo, anche ai pacchetti di sigarette, dove sono stampate cose verissime (io posso testimoniarlo), ma anche cose strane, tipo «Fumare in gravidanza fa male al bambino», poiché non ho notizie di bambini che fumino in gravidanza. Un po’ di buonumore, insomma. Però, quando svanisce l’euforia, mi sento uno schifo, e i pensieri precipitano dall’azzurro psichedelico alla buia gamma che va dal fumo di Londra all’asfalto romanesco. Tipo: per la tomba ci vorrebbe una camionata di ghiaia e non ho ancora imparato a farmi bene la barba. Uhm, se qualche goccia oppiacea mi strapazza tra le stelle e le stalle, chissà che cosa combineranno tutte le pasticche, i liquidi e i vapori con i quali m’imbottiscono giorno e notte. A parte l’addio al cibo per il gatto, sono certamente una persona diversa, praticamente senza muscoli e con i piedi gonfi. Questo si vede. Ma il cuore, il cervello, la pazienza e la fantasia mica si vedono. Speriamo bene. Possono anche migliorare, no?
Baci & abbracci. Tutti mi festeggiano perché sono guarito, dicono. La cugina, però, mi sussurra nell’orecchio che adesso incomincia la manutenzione. Oddìo, detesto le riflessioni troppo profonde, però mi sembra ovvio che la manutenzione sia il sinonimo d’ogni itinerario dell’umana esistenza. Insomma: mi trasferisco in una grande clinica chiamata Campus a Trigoria, località celebre per gli allenamenti della Roma, squadra della quale non m’importa un fico. Qui faccio esercizi di respirazione e di riabilitazione. Cioè: contorsioni ginniche, percorsi cronometrati in corridoio, aerosol, esami intrecciati che rivelano quanto sia sbilenco il mio scheletro. E lezioni quotidiane: respira col naso, addrizza le spalle, ingoia proteine etc. «Beh, ti lamenti?». Non sia mai, cara. Però sono un po’ stanchino, come diceva Forrest Gump. «E dai, che è finita. Sarai contento, adesso». Molto. Però dopodomani si ricomincia.
«Cioè?». D’ora in poi dovrò sbattermi ogni giorno in una propaggine remota di questo Campus, per subire ventotto sedute di radioterapia, condite con qualche Tac, qualche analisi del sangue, qualche ispezione/prescrizione/proibizione etc. Eccomi in viaggio sulla via Prenestina. Poco prima della clinica c’è sempre, seduta davanti a un fosso, la stessa mignotta intirizzita, gonfia, roscia e disperata per mancanza di clienti (colpa della crisi, o ha sbagliato mestiere?). Nel parcheggio del reparto oncologico giacciono le Mercedes dei finti poveri, sculettano le signore in pantaloni mimetici, accorrono frotte di zingare e zingari petulanti/esigenti (se tiri fuori cinquanta centesimi, ti schifano come un pezzente). E giù, non al pianterreno come nel racconto di Buzzati, ma addirittura nel sotterraneo (l’ascensore scende soltanto: schiacciare il bottone «meno due»), ecco gli ammalati in attesa, ecco la lunga camera dove siedono i pazienti tutti in fila, con le flebo nelle vene. E si guardano, e forse si domandano chi non tornerà, per la Chemio di domani. Tu o io?
Drin. I telefoni cellulari non fanno Drin, quando chiamano, ma facciamo finta, per capirci. Drin. «Ciao bello, hai finito la radio?». Sì, Pia carissima. «E come ti senti?». Un fiore. «Che gioia, domani vengo a trovarti». Grazie, non ti devi disturbare. Clic. I telefoni cellulari non fanno Clic, quando li spegni, ma facciamo finta, per capirci.
Giuliano Zincone