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 2012  dicembre 30 Domenica calendario

MACCHE’ UTOPIA, IL TELELAVORO E’ UNA TRAPPOLA

Le prime riflessioni sul telelavoro — soprattutto quelle contenute nel noto bestseller del 1980 di Alvin Toffler, La terza ondata — descrivevano il fenomeno in termini molto romantici. Per i futurologi come Toffler, la casa/ufficio era un «cottage elettronico», che avrebbe potuto «cementare nuovamente i legami familiari», dare «maggiore stabilità alla comunità» e promuovere «una rinascita delle organizzazioni di volontariato». Lavorare da soli non costituiva un problema, nel futuro di Toffler saremmo stati tutti coinvolti in un telelavoro collettivo! (Va detto che Toffler non faceva che riprendere idee in circolazione già da vari decenni. Ad esempio, nel suo libro più famoso, Introduzione alla cibernetica. L’uso umano degli esseri umani, Norbert Wiener ipotizzava già che un architetto europeo sarebbe stato in grado di supervisionare la costruzione di un edificio in America utilizzando un dispositivo simile a un fax).
Ai giornalisti piaceva farsi sedurre da quelle storie di emancipazione dal lavoro a mezzo della tecnologia. Nel 1983 sul «San Jose Mercury News» si leggevano queste parole entusiaste: «I computer in casa saranno una manna per le madri lavoratrici». Allora sembrava ragionevole aspettarsi che il «cottage elettronico» un giorno ci avrebbe permesso, come aveva notoriamente detto Karl Marx, di «andare a caccia la mattina, a pesca il pomeriggio, curare gli animali la sera e esercitare la critica dopo cena». Per Toffler e i suoi seguaci, gli uomini avrebbero usato il computer per lavorare di più in meno tempo, senza dover sottostare all’alienante routine di un lavoro d’ufficio dalle 9 alle 17. Il sogno di Toffler — per non parlare di quello di Marx — ora sembra molto lontano. In qualche raro caso il telelavoro ha effettivamente dato risultati positivi. All’inizio di quest’anno, un sondaggio della Ipsos/Reuters ha rilevato che nel mondo circa un lavoratore su cinque lavora da casa, e questo avviene soprattutto in Medio Oriente, America Latina e Asia. I sondaggisti non l’hanno chiesto, ma sembra ragionevole immaginare che non siano molti i telelavoratori che pensano di vivere in una sorta di «cottage elettronico». Uno dei motivi è che sono poche le imprese ad aver pienamente abbracciato il telelavoro. Anche se molte permettono ai dipendenti di lavorare da casa un paio di venerdì al mese, hanno ancora bisogno di averli materialmente in ufficio, di tanto in tanto.
Questo perché, per quanto lavorare da casa possa sembrare bello, gli studi indicano che non sempre è produttivo. Lo dimostra un recente esperimento condotto nell’arco di un anno dall’Office for Personal Management (Opm), un ente governativo americano che gestisce i dipendenti pubblici. L’Opm ha permesso ai dipendenti una totale flessibilità nei tempi e luoghi di lavoro, purché svolgessero i compiti previsti. Secondo una indagine della società di servizi Deloitte, i dirigenti dell’Opm non riuscivano a valutare le prestazioni dei loro dipendenti, la qualità del lavoro era peggiorata e gli impiegati non si rendevano conto se stessero dedicando al lavoro il tempo e l’impegno necessari. Certo, non tutti i tentativi di telelavoro finiscono come quello dell’Opm. L’Aetna, una compagnia di assicurazioni americana, viene di solito citata come un esempio di successo in questo campo: il 47 per cento dei suoi dipendenti statunitensi lavora da casa in permanenza. Ma passare tanto tempo in casa presenta anche degli svantaggi: gli impiegati di Aetna tendono a essere sovrappeso e ora la società fornisce loro un personal trainer online per aiutarli a rimanere in forma.
Il telelavoro potrebbe poi non dimostrarsi così utile per l’ambiente, a dispetto di quanto ci si attendeva. Uno studio del 2011, uscito sugli «Annals of Regional Science», trovava che in media i telelavoratori finivano per spostarsi di più — sia per lavoro che per svago — rispetto a chi si recava in ufficio. In altre parole, il fatto che non usassero la macchina per andare al lavoro non significava che la usassero di meno in generale. Come dice Pengyu Zhu, autore di questo studio, «le speranze degli urbanisti e degli amministratori, che si aspettavano una diminuzione degli spostamenti, sono state largamente disattese».
Quel che ancora non viene abbastanza studiato è il modo in cui società tipo l’Aetna — che si servono del telelavoro — possano raggiungere i loro obiettivi. Come rivela una recente indagine del «Wall Street Journal», per assicurarsi che i loro dipendenti svolgano accuratamente il proprio lavoro, le aziende che utilizzano il telelavoro si affidano sempre più spesso a strumenti nuovi e sofisticati di sorveglianza, come la rilevazione di schermate delle attività al computer degli impiegati, o il controllo della cronologia del loro browser (ma anche il monitoraggio del tempo che i dipendenti passano su ciascun sito). Se i dipendenti utilizzano il computer di casa per il lavoro, la loro privacy e quella dei familiari potrebbe esserne compromessa: i datori di lavoro non finirebbero infatti per dare un’occhiata, magari accidentalmente, a quello che fanno al computer nelle ore non lavorative?
In un certo senso, quello che doveva essere un «cottage elettronico» è diventato un «luogo di sfruttamento elettronico». Non solo per via della sorveglianza, ma anche perché molti di coloro che lavorano da casa finiscono per fare assai più di prima. Questo è almeno quanto sostiene un recente studio uscito sulla «Monthly Labor Review», una pubblicazione del Bureau of Labor Statistics.
Basandosi su due raccolte di dati piuttosto sistematiche, lo studio traccia l’evoluzione del telelavoro negli Stati Uniti negli ultimi decenni. E rivela alcuni fatti sorprendenti. Pare, ad esempio, che i telelavoratori abbiano meno probabilità di essere sposati. (A dispetto delle «famiglie cementate» di Toffler). Ma il dato più interessante è che il telelavoro, invece di riequilibrare il rapporto vita/lavoro, spinge a lavorare di più, ma da casa. Come sostengono gli autori, un’interpretazione plausibile di questo risultato potrebbe risiedere nel fatto che «il telelavoro ha dato il suo contributo alla generale tendenza a espandere gli orari di lavoro, venendo incontro più facilmente al bisogno dei lavoratori di aggiungere ore straordinarie e/o dando ai datori di lavoro la possibilità di ampliare o intensificare le prestazioni richieste ai loro dipendenti».
In altre parole, i telelavoratori — la maggioranza dei quali va ancora in ufficio, anche se meno frequentemente dei colleghi che non lavorano da casa — si trovano in una sorta di circolo vizioso: vogliono usare la tecnologia per essere più produttivi e trascorrere più tempo con la famiglia, ma la disponibilità di una tecnologia che permette di aumentare la produttività induce i datori di lavoro a pensare che i dipendenti svolgeranno una maggiore mole di lavoro nel fine settimana o dopo cena. Ne dà la prova un sondaggio svolto dal Pew Research Center nel 2008, secondo cui «dal 2002, tra gli impiegati americani è aumentata la tendenza a controllare le email di lavoro nei weekend, in vacanza e prima e dopo l’orario di lavoro».
Non sarà che i gadget che avrebbero dovuto contribuire a riequilibrare il rapporto vita/lavoro rendono invece peggiore la situazione? Gli storici della tecnologia non sarebbero molto sorpresi da questa svolta paradossale. In More Work for Mother («Più lavoro per la madre») la storica della University of Pennsylvania Ruth Schwartz Cowan ha dimostrato che introdurre in famiglia gadget che facilitano il lavoro spinge le donne a sgobbare ancor di più. Le ragioni di Schwartz, a parte gli aspetti specificamente femminili, sono tanto semplici quanto interessanti: i presunti benefici di questi dispositivi non possono essere valutati al di fuori del più ampio contesto sociale, economico e culturale in cui vengono usati.
Dovremmo forse mitigare gli entusiasmi nei confronti della tecnologia, tutt’altro che rivoluzionaria, che migliora la produttività. Per quanto sia allettante pensare che le automobili a guida automatica di Google ci permetteranno di vedere un film, anziché guidare, è probabile che useremo invece il tempo guadagnato per lavorare su qualche noioso foglio di calcolo. Possiamo chiamarlo progresso?
Evgeny Morozov
(Traduzione di Maria Sepa)