Concetto Vecchio, la Repubblica 5/1/2013, 5 gennaio 2013
VIAGGIO ALLA RICERCA DELLA SICILIA PERDUTA
Qual è il sentimento dominante nell’ultimo libro di Pietrangelo Buttafuoco, Fuochi, edito da Vallecchi? Una certa delusione verso la Sicilia, un disamore, disillusione. Che poi è lo scoramento che prende quasi tutti quelli che dopo averla tanto vagheggiata — nella lontananza, nel sogno letterario — poi vi tornano, e ritrovatisi a brutto muso con i complicati impicci della sua indecifrabile quotidianità, la riscoprono per quello che spesso è: un luogo troppo difficile, nel realizzare le cose, nel realizzarsi. «Per dire l’unica cosa che si può fare è la villeggiatura».
Anche Buttafuoco a un certo punto è tornato, a dirigere uno Stabile tra i più rinomati, nella città-teatro di Catania, e si è ritrovato imprigionato nella vischiosità della politica locale, nei velenosi bizantinismi del suo potere, nella camminata annacata che tutto frantuma. Scrive con durezza: «La cosa più urgente sarebbe quella di sospendere la democrazia in Sicilia. Ci vorrebbe una dittatura tecnica». Nell’isola, semplificando, è arrivato il consumismo, ma forse non la vera modernità: per andare da Catania a Palermo in treno ci si mettono sempre cinque ore (quando va bene), la Siracusa-Gela finisce a Rosolini, città come Giarre sono musei mondiali dell’incompiuta, ovunque eterne bellezze mai realmente sfruttate, esemplificate nell’immagine di Buttafuoco che vuol visitare il Parco archeologico dello Jato, ma gli dicono che chiude i battenti all’una del pomeriggio, così si ritrova unico visitatore scortato dallo stupore di ben sei impiegati. Del resto del Sud da anni non parla più nessuno, non è più un tema come lo fu ai tempi della Prima Repubblica, è completamente scomparso dall’agenda politica: lo ha denunciato nel suo ultimo discorso anche il presidente Napolitano. È come se si fosse accettato che è una causa persa, una palla al piede. Grave errore. Nel 2030, ha calcolato lo Svimez, sarà soprattutto una terra di vecchi: ma che futuro può avere un posto da dove anche uno dei suoi figli più appassionati alla fine si ritrae, con il suo carico definitivo di amarezze?
Fuochi non è facile da classificare. È un po’ diario, un po’ reportage (sulle librerie che scompaiono, Buttafuoco da ragazzo fu libraio), ma anche ritratti di grandi italiani (Bobbio, Scalfari), incontri più o meno particolari (c’è persino Marcello Dell’Utri che racconta a modo suo Leonardo Sciascia); Oriana Fallaci e Mirello Crisafulli, la Folgore e la lapa, mafiosi come Turi Cachiti, e poi le cose viste lungo le strade dell’isola, flash, riflessioni, lampi, suggestioni, detti siciliani. A volte lo sguardo è troppo indulgente, talvolta tranchant — non si può ridurre un maestro di giornalismo come Giorgio Bocca unicamente al suo presunto antimeridionalismo, dimenticando una vita intera di coraggio civile, inchieste memorabili, grandi libri —, talvolta l’autore eccede nello stile, ma non annoia mai, soprattutto il suo non è uno sguardo banale né convenzionale.
Ci sono pagine vividamente cinematografiche, come l’affettuoso capitolo sullo zio Buttafuoco - Nino Buttafuoco parlamentare del Msi, sindaco di Nissoria, imprenditore del caffè nella provincia di Enna — il cuore profondo dell’isola, un posto dove d’inverno può fare un freddo, scriveva Sciascia che uno del Nord manco se lo immagina. Lo zio Nino, quindi, e pare di vederlo davanti a noi, grondante di passioni, di umori, di vita, romanzesco. Lo zio Nino che tanti anni fa lo invita a scrivere, «a scrivere un romanzo».
Il fotogramma che più si staglia nella memoria, ma qua siamo per l’appunto nella Sicilia del sogno, dell’inganno.