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 2013  gennaio 04 Venerdì calendario

Quando l’eugenetica (cattiva) era simbolo di vero progresso - Inveire contro. Ecco cosa troveremmo alla voce «Eu­genetica » se potessimo consultare un aggiornato Dizionario dei luoghi comuni di Flaubert

Quando l’eugenetica (cattiva) era simbolo di vero progresso - Inveire contro. Ecco cosa troveremmo alla voce «Eu­genetica » se potessimo consultare un aggiornato Dizionario dei luoghi comuni di Flaubert. Trattasi infatti di con­cetto- tabù, come tutte quelle pa­role (selezione, coltivazione) d’ascendenza agraria e di sapore fascistoide: un flirtare tra scienza e biopolitica che ridesta lo spet­tro hitleriano. Eppure, come rico­struisc­e ottimamente la giornali­sta e storica Lucetta Scaraffia nel volume Per una storia dell’euge­netica. Il pericolo delle buone in­tenzioni (Morcelliana), a quei tempi essere eugenisti era il mas­simo del progressismo. A cavallo tra Ottocento e Novecento,all’al­ba della “ morte di Dio”,per la spa­esata intellighenzia convertitasi al positivismo l’eugenetica era tentazione irresistibile, almeno fino ai vari patatrac totalitari. Il termine, coniato dallo statistico Francis Galton (cugino di Darwin), condensa fermenti che dall’Inghilterra s’irradiavano in Europa. Il trionfo della tecnica andava surrogando le certezze andate in frantumi. Medici, gene­alogisti e philosophes mescola­vano gli studi sui piselli di Men­del in un brodo di coltura pseudo­scientifico da cui nasceva una nuova religione civile: coltivare una superumanità. Certo, la sto­ria della liaison tra Scienza e Be­ne è più anziana: Platone, primo eugenista, voleva le donne in co­mune, avrebbe abolito la fami­glia (troppo egoista), auspicava accoppiamenti solo tra persone smart e i figli deformi li avrebbe gettati nel burrone. Un bel saggio di Oddone Camerana in coda al libro rievoca la temperie lettera­ria affascinata dalla giovane «an­tropotecnica ». Aldous Huxley e Èmile Zola hanno innaffiato ad arte il nuovo Eden post-secolariz­zazione. Sempre in quel periodo la scienza svestiva i camici e la­sciava i laboratori per farsi buo­na novella filantropica e busi­ness. E Louis Pasteur e Robert Ko­ch­erano i nuovi padreterni da in­censare. In quel calderone ribollivano le ansie di degenerazione, i cupi scenari neomalthusiani, con pre­dizioni (sballate) d’implosione del pianeta. C’erano i nazionali­smi e i razzismi, con solennità pa­ganeggiante s’incrociavano i ca­ratteri per creare la specie eletta, mentre i debolucci erano invitati a non riprodursi quando non ste­rilizzati ( fino al cortocircuito hit­leriano: eutanasia). L’Occidente stanco e orfano del cielo si sazia­va di quell’utopia. Più o meno sbandati, più o me­no nichilisti, ma eugenetici era­no un po’ tutti, la biologia del mi­glioramento non era né di destra né di sinistra, né atea né cattoli­ca. Il Nobel per la medicina Char­les Richet nel 1919 scriveva sen­za troppe remore: «Non vedo nes­suna necessità sociale di conser­vare bambini tarati », il pio Agosti­no Gemelli era un eugenetico en­tusiasta, George Bernard Shaw inneggiava al ministero dell’Evo­luzione. Il motivo è semplice: la modernità allora era quella. Le sterilizzazioni erano all’ordine del giorno nei liberali States, nel­la socialdemocratica Svezia, nel­l’immacolata Svizzera. Femmi­niste come Ellen Kay e Margaret Sanger le contavano tra le prati­che della donna emancipata. Ab­bondantemente adoperate an­che per motivi di cassa: disabili e criminali erano un fardello per il Welfare. E così si va avanti fino agli anni ’70. Calcoli che ora sap­piamo esser grezzi, anche per­ch­é schiacciare le qualità sui cro­mosomi è complicato. Ma confu­sioni e appiattimenti restano. Dietro l’etichetta eugenetica si ficca tutto, dall’amniocentesi a Pol Pot. Oggi ad esempio si dice che l’eugenetica non sia più di Stato ma “liberale”: una scelta soppesata per fatti propri e offer­ta dal progresso. Con annesse querelles : da una parte gli scien­ziati che s’infuriano al sentir “umanizzare” i loro settori; dal­l’al­tra un altrettanto infuriato Jür­gen Habermas che tuona contro le biotecnologie liberticide. E mentre i salotti buoni d’Europa si scervellano sull’ampiezza del concetto di “terapeutico”, in Ci­na c’è l’eugenetica statale del fi­glio unico, mentre negli Usa ba­sta sfoderare il portafogli per comperare superbimbi à la carte col colore degli occhi favorito. Imbarazzi che germogliano dopo la perdita dell’«aura» della nascita, riproducibile tecnica­mente. Il problema è dover sce­gliere che cosa sia l’uomo ( e qua­li malattie rendono la vita “inde­gna”: l’Aids? la nevrosi? l’obesi­tà? Zeno Cosini? Homer Simp­son?). Così capita ogni qualvolta la scienza sposta più in là l’asticel­la tra caso e decisione. Resta poi l’incognita-ambiente,per cui,al­la fin fine, varranno più i geni o l’educazione? Meglio la selezio­ne prenatale o la musica New Age già dal pancione?Tanti dub­bi e un’unica sicurezza. La nasci­ta resta comunque appesa alla volontà dei genitori. E essere bambini desiderati è una fatica. Che non si sceglie.